“Don Chisciotte”, dal romanzo di Miguel de Cervantes, adattamento di Francesco Niccolini, drammaturgia e regia di Roberto Aldorasi, Alessio Boni, Marcello Prayer. Con Alessio Boni e Serra Yilmaz. All’Ambra Jovinelli di Roma
Le avventure di Ronzinante e del suo cavaliere
Il cavallo è bravissimo. Ronzinante è un vero personaggio, ha una capacità espressiva e una forza mimica invidiabili, un modo di muovere la testa, la coda e finanche le orecchie che lo rendono un carattere immediatamente comprensibile. Addirittura, commenta l’azione con i suoi sbruffi e nitriti. Vuole bene al suo cavaliere Don Chisciotte, lo difende e lo asseconda nelle sue strampalate avventure. Sa di essere un cavallo molto importante, un pari del regno di Equilandia assieme ad altri eroi indimenticabili citati dalla Dama Tribolata nel capitolo quaranta della seconda parte del Don Chisciotte di Miguel de Cervantes: “Il nome – rispose la Tribolata – non è quello del cavallo di Bellorofonte che si chiamava Pegaso, né come quello d’Alessandro Magno, chiamato Bucefalo, né come quello di Orlando Furioso, il cui nome fu Brigliadoro, e nemmeno Baiardo, che fu quello di Rinaldo di Montalbano, né Frontino, come quello di Ruggero, né Boote, né Piritoo, come dicono che si chiamano quelli del Sole, e nemmeno si chiama Orelia, come il cavallo con cui il disgraziato Rodrigo, ultimo re dei Goti, entrò nella battaglia in cui perdé la vita e il regno”.
“Scommetterei – disse Sancio – che poiché non gli hanno dato nessuno di questi nomi di cavalli tanto famosi, non gli avranno dato nemmen quello del cavallo del mio padrone, Ronzinante; che in quanto ad essere bene appropriato supera tutti quelli ricordati”. Superiore quindi persino ad Aquilante, il destriero di Brancaleone da Norcia.
Ronzinante mosso sulla scena dell’Ambra Jovinelli di Roma da Biagio Iacovelli dentro il cavallo munito di zampe a rotelle, porta in groppa il Don Chisciotte di Alessio Boni, hildalgo spavaldo e lunare, marziale e saturnino, il corpo tutto ferroso di spada e d’armatura, lo spirito ricolmo di nuvole labirintiche, la vita turbinosa sulle strade di polvere della Mancha, Al-Mansha in arabo, terra secca. Dietro di lui, accanto a lui, sotto di lui, lo scudiero che è Serra Yilmaz cinta d’una specie di ciambellona con testa di somaro. Sancio Panza, ossia la realtà al seguito dell’irreale, del sogno ch’è una verità più alta dove non alberga menzogna e si combatte lealmente il duello della vita e della morte, i giganti dei mulini a vento e gli eserciti mussulmani delle greggi di pecore. La morte è un’illusione, è l’apparizione del non esserci, battersi con lei vale una lancia scagliata contro il vapore d’un miraggio, una spada roteante sulla testa d’una chimera, l’assalto al castello d’una fatamorgana. L’unica battaglia ardimentosa è quella perduta, la vittoria va al codardo, la sconfitta arride all’audace. All’errante cavaliere della vita. Erra, sbaglia, perde, si perde fra i picari del mondo, i furbi privi di scrupoli, i feroci straccioni che sono gli esseri umani vuoti di nobiltà d’animo. Il maniero dello spirito cavalleresco, della mente poetica e loca, pazza, è una locanda e le due sguattere delle principesse. Ogni donna nasconde una principessa. Alla contadina Aldonza Lorenzo viene donato il suo nuovo nome di gran dama Dulcinea del Toboso, nome di gentildonna candidissima d’amore celestiale, ultramondano, per l’ingegnoso hidalgo Don Chisciotte perdutamente innamorato.
Tutto il primo tempo corre così, con gli altri cinque interpreti a fare doppi, tripli, quadrupli ruoli, ché alla fine saranno una trentina i personaggi d’uno spettacolo molto corale. Al secondo tempo però qualcosa accade, anzi non accade e la tensione si perde, il ritmo si sregola. Il ritmo a teatro è una cosa strana, gli va dato tempo per tenerlo e non troppo per cambiarlo, come un cavallo che deve passare da un passo a un altro, da un galoppo a un trotto o viceversa, per non intorpidire i cavalieri in platea. A forza di cercare le ragioni del fenomeno, visto che la messinscena continua a mostrare varie cose di pregio, vien da pensare che il difetto sta nel manico, ossia che lo spettacolo insegue il Don Chisciotte, il romanzo, invece di correre dietro a Don Chisciotte, il personaggio. La letteratura non fa bene al teatro così come l’umidità rovina la pittura a olio. I personaggi sono esserini pigri, amano stare nel posto dove sono nati, persino quando girovagano per le strade del regno di Spagna. Così l’hidalgo torna nel romanzo perché privato non dell’azione teatrale ma della variazione, della varia azione. La regia è collettiva, firmata da Roberto Aldorasi, Alessio Boni e Marcello Prayer, tutt’e tre anche drammaturghi assieme a Francesco Niccolini. Eppure al secondo tempo manca l’idea risolutiva che porti verso l’epilogo e frusti lo spettatore. Il doppio finale dispensa un troppo che segnala una mancanza. Tuttavia il collettivo ha dei pregi evidenti perché tutti lavorano in modo compatto in un allestimento stilisticamente e poeticamente coerente. La recitazione del protagonista, Alessio Boni, non esce dal gruppo e permette allo spettacolo di dispiegarsi collettivamente dall’inizio alla fine. Forse per le stesse ragioni di omogeneità interpretativa, Serra Yilmaz si astiene da varie occasioni comiche che sarebbero ghiotte per una caratterista. Attore con una forte personalità, un suo modo di stare in scena originale ma non invasivo, che resta sempre in sintonia con gli altri, tecnico senza darlo a vedere, è lo stesso Marcello Prayer. Applausi anche per Pietro Faiella, Liliana Massari, Francesco Meoni ed Elena Nico che completano una compagnia solida. Battimani immoderati per Ronzinante. Gli animali, anche finti, e i bambini se sono bravi rubano la scena a tutti. Scenografie di Massimo Troncanetti, costumi di Francesco Esposito.