“Stremate… ultimo atto?” di Giulia Ricciardi anche interprete assieme Beatrice Fazi, Milena Miconi e Marta Zoffoli. Regia di Patrizio Cigliano. Al Golden di Roma.
Tre vecchiette sul divano e Crudelia De Mon
È doveroso riconoscere i meriti di un teatro popolare che genera commedie leggere apprezzate da un pubblico schietto e generoso di applausi a scena aperta. Stremate… ultimo atto?, al Golden di Roma con regia di Patrizio Cigliano, è il quinto titolo d’una saga teatrale femminile scritta da Giulia Ricciardi e iniziata nel 2015 con il primo Parzialmente stremate.
Se si fa astrazione di questa sala di spettacoli molto tecno con le platee disposte su tre lati dello spazio scenico quadrato e con luci, lucette, schermi, specchi e musiche amplificate, sembra a momenti d’essere finiti dentro una cronaca teatrale anni Trenta di Alberto Savinio con il pubblico che rumoreggia e commenta l’azione a voce non bassa.
Questo tipo di commedia è un servizio culturale perché non vellica bassi istinti goliardici e mantiene nel pubblico l’abitudine di andare a teatro e goderne. Perché quel che conta in questi tempi di pandemie e di guerre, in questi anni di piaghe in cui mancano, per adesso, soltanto le piogge di locuste, è di stare lì, insieme, a fare per (e con) gli spettatori del teatro, il quale è una delle più straordinarie invenzioni dell’Occidente, della civiltà europea che molti bramano di vedere declinare e che invece rappresenta, forse, ancora, l’ultimo centro di solidarietà sociale e il primo generatore di valori etici e morali. Fare teatro tutte le sere – leggero, brillante, comico, tragico, politico, sperimentale, Shakespeare o Feydeau – vuol dire combattere i fascisti guerrafondai e le tirannie orientali.
Infatti il valore che sottostà a questo testo semplice, pensato per divertire, è la cura degli anziani, senza la quale si provano turbamento e scandalo incomprensibili a colui che non condivide questo obbligo morale della collettività. Tre signore novantenni vivono in una casa di riposo gestita da una governante francese malvagia, una via di mezzo fra una kapò tedesca e Crudelia De Mon. Sono dotate delle caratteristiche adatte alla comicità: una è sorda e porta apparecchi acustici che fischiano di continuo, la seconda è sciancata e cammina cigolando come le ruote di una carriola scassata, la terza è svampita e sta perdendo la memoria.
All’interno di questo quadretto, l’autrice infila un piccolo plot, un giallo costruito sul sentimento contrario alla cura e alla solidarietà, cioè la vendetta. La drammaturgia è scritta con un’equilibrata e matematica distribuzione delle battute, di modo da evitare l’emersione di un ruolo protagonista ed invece dispiegare un lavoro corale. Ecumenicamente, ognuna delle quattro interpreti viene valorizzata da un monologo che la mette nelle condizioni di prendersi gli applausi a lei personalmente dedicati: sono Beatrice Fazi, Milena Miconi, la stessa autrice Giulia Ricciardi e Marta Zoffoli che s’invecchiano e si piegano e tremolano a dovere. La regia si tiene in relazione stretta con la drammaturgia, come è bene fare con questo genere di commedie, muove le vecchiette quasi sempre insieme, spesso le raggruppa sul divano o a tavola, esalta i rapporti interni al trio, mentre la governante attua un movimento individuale di contrasto che serve a mandare avanti l’azione. Cigliano sfrutta tutte le occasioni possibili, ma senza mai volgarità, per portare il pubblico dalla parte delle interpreti. Usa anche la retorica, perché non potevano mancare gli stringimenti di cuore per la vecchiaia, gli acciacchi, i figli che non si fanno vedere da anni, l’ora che chiude la vita. Ma la retorica a teatro c’è un po’ dappertutto, basta saperla usare. Così cantava Gigi Proietti interprete del vecchissimo Numa Pompilio che giaceva con la ninfa Egeria ne I sette re di Roma di Gigi Magni, regia di Pietro Garinei: “Aspetta sole non uscire ancora / Dovrebbe durà un secolo quest’ora / La notte è bella è bella anche la vita / È bella ma peccato che è finita”.