“I Mezzalira – panni sporchi fritti in casa” di Agnese Fallongo, anche interprete assieme a Tiziano Caputo e Adriano Evangelisti. Regia di Raffaele Latagliata. Alla Cometa Off di Roma
Brutti, sporchi ma non cattivi
Non è Brutti, sporchi e cattivi perché i personaggi sono fondamentalmente buoni, però è l’Italia morta di fame dei nostri nonni e bisnonni che dai paesi emigra verso le città, è l’Italia sudista che fu derubata dai piemontesi e dai briganti Savoia e che si vendicherà iniettando tanta mafia nelle regioni del nord. Questa in scena alla Cometa off di Roma, con regia di Raffaele Latagliata, è però soltanto una famiglia di disgraziati portata in scena da Agnese Fallongo (anche interprete assieme a Tiziano Caputo e Adriano Evangelisti) con un suo testo intitolato I Mezzalira – Panni sporchi fritti in casa.
I panni sporchi sono un fattaccio da non raccontare, ne va della fatica dell’autrice per tendere la drammaturgia e portarla al colpo di scena. Il fritto è dovuto all’indigenza della famiglia che non si può permettere di friggere perché l’olio è di proprietà del padrone. Questa è la situazione. I personaggi invece sono la madre, il padre, la nonna, la figlia e il figlio, quest’ultimo portatore della memoria, voce narrante che racconta la storia dei Mezzalira molti anni dopo, quando ormai è adulto e avanti con l’età. L’intreccio è costituito dai rapporti fra i componenti della famiglia massimamente condizionati dal moralismo, dalla miseria, dalla distanza fra generazioni, dalle aspirazioni e dalle aspettative di ciascuno. L’azione ne è la logica conseguenza.
Ora tutto ciò, che a farne la sintesi potrebbe anche apparire arido e pure scontato come sovente accade con il “come eravamo”, avrebbe in teoria un terzo difetto perché trattandosi di una storia familiare in un’Italia che fu non risponde alla domanda: in che cosa è più interessante la storia narrata dalla Fallongo rispetto a quelle che certamente si portano dentro gli spettatori in sala? Tutti o quasi detengono un’epica familiare, più o meno grande e importante ma interessante in genere e rivelatrice del nostro passato collettivo. La domanda però viene cancellata dalla drammaturgia che è poetica, suscita emozioni perché fondata su dialoghi al contempo divertenti e commoventi. La lingua dei personaggi è un dialetto meridionale sui generis, inventato, sincretico, comprensibile anche ad intuito, almeno a orecchie abituate al Meridione, e sonoro, ritmico, adatto ad un’espressione musicale dei sentimenti. Gli attori in scena, che coprono doppi ruoli, hanno così a disposizione uno strumento che permette loro di lavorare fra comicità e sentimento, epica e retorica del passato, naturalismo e assurdo con tale efficacia da ricevere applausi a scena aperta e addirittura una standing ovation alla fine dello spettacolo. La regia di Latagliata ha due pregi: si fida degli attori (e fa bene); con pochi accorgimenti, semplici e funzionali, mette ordine e organizzazione scenica, anche se un po’ di garbuglio resta nella drammaturgia.
Particolarmente apprezzato Tiziano Caputo nel ruolo del padre e soprattutto della nonna, vecchia bigotta ma intelligente ed esperta della vita, sorda che sente e capisce tutto, personaggio che l’attore spinge al massimo nel buffo e nel serio. Molto brava anche l’autrice stessa, Agnese Fallongo, che interpreta la madre e la figlia, governando sempre adeguatamente i due personaggi assai diversi fra loro: la genitrice, una poveretta nevrotica sovrastata dalle difficoltà e dalle fatiche; la ragazza, instradata nei tempi nuovi che stanno arrivando e contengono una morale e una mentalità diverse. Ad Adriano Evangelisti la parte del figlio, o meglio dell’adulto che porta dentro di sé un’infanzia che oggi nessun giovane può immaginare. I Mezzalira sono diventati i Quattroeuro e neanche la povertà è più la stessa.