“Il fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello, interpretazione di Giorgio Marchesi. Al Ghione di Roma
L’Heidegger di Girgenti e il lanternino della filosofia
Edito nel 1904, Il fu Mattia Pascal è il primo romanzo di grande successo di Luigi Pirandello, trentasettenne all’epoca, e rappresenta un momento decisivo nello sviluppo della sua personalità di scrittore. Giorgio Marchesi porta in scena al Ghione di Roma un suo monologo tratto dall’originale.
Pirandello racconta una storia piuttosto ingarbugliata di tradimenti, prole illegittima, intrighi familiari, amministratori patrimoniali ladri e insomma tutt’un mondo di provincia in quel di Miragno, cittadina di fantasia. Poi il protagonista Mattia Pascal, creduto morto e abbigliato di nuova identità sotto il nome di Adriano Meis e di nuova vita, va a vivere a Roma in una camera ammobiliata. Si ritrova in una squallida pensione di via di Ripetta e viene coinvolto nelle vicende famigliari dell’affittacamere Anselmo Paleari, fanatico cultore di teosofia e spiritismo, della figlia Adriana, del genero Terenzio Papiano, mascalzone pericoloso vedovo di un’altra figlia di Paleari. Nella casa vivono anche un fratello di Terenzio, Scipione, epilettico e ladro, e una patetica inquilina, la maestra di pianoforte in pensione Silvia Caporali. Questa è la piccola, piccolissima, borghesia romana postunitaria. Non c’è scampo: tutto il mondo è paesello.
Ci sono spazio e righe di romanzo dedicate alle solite contorsioni filosofeggianti pirandelliane. In quest’opera il girgentino lancia la sua famosa filosofia del lanternino, per la quale l’affittacamere Anselmo prova un sentimento della vita che è (val la pena di riportare il brano originale) “come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?”. Spento il lanternino, bam!, ci ritroviamo nel buio alla mercé dell’Essere. Chissà se Heidegger l’ha mai letta la lanternino – filosofia, avrebbe cambiato il titolo di Sein und Zeit (Essere e Tempo) in Sein und Blitz, essere e lampo.
Forse per aprire una finestra e dare un po’ di luce alla vicenda, Giorgio Marchesi ha cercato di sottolineare con il suo monologo “l’ironia presente nel testo” (sono parole sue). Ogni tanto, comprensibilmente, qualcuno si mette a cercare un po’ d’ironia in Pirandello a mo’ di oro del Klondike. Ma la parola è pietra. In ogni modo, la scena offre delle possibilità inesauribili di sovvertimento e di divertimento, da lì si può fare ridere anche un fioraio in una pietraia. Bisogna tradire l’originale naturalmente, come si fa con una moglie di paese pirandelliano. L’attore vuol dare brio e allegria a tutta questa storia ed è encomiabile per come s’adopera: e cambia i toni e varia i ritmi e si muove, gesticola, passeggia, avanti, indietro, vestito d’un frac bianco sopra una maglietta, accompagnato dal contrabbassista Raffaele Toninelli che esegue le proprie musiche. Tutti questi sforzi interpretativi e trovate di recitazione sono penne colorate messe ad addobbare l’ingresso d’una cappella cimiteriale. Resta però la sensazione che l’ironia in questo contesto sia un po’ forzata senza che si cavi molto più d’un ragno dal buco. Per quanto l’attore cerchi di alleggerirlo, il testo pesa sulla sua prova, tecnica ma non fluida. Si vede e si sente l’impegno del recitare, si avverte una ricerca di brillantezza che non suona ovvia, naturale. A volte i ragni vanno lasciati là dove stanno, impegnati a prendere mosche.