“Smarrimento” scritto e diretto da Lucia Calamaro per e con Lucia Mascino. Al teatro India di Roma
Parlare per non scrivere niente
“Come state a Deleuze?”, chiede al pubblico la protagonista. E anche su Badiou vuole capire come va. Ci sono in effetti alcuni problemi piuttosto importanti nella vita. Uno per esempio è l’indicibilità dell’evento in Alain Badiou, anzi più propriamente l’evento è indecidibile; un altro riguarda la mise en abyme, forse in Gilles Deleuze, forse in Roland Barthes. Sicuramente in André Gide, il quale affermava: “Mi piace che in un’opera d’arte si ritrovi così trasferito, sulla scala dei personaggi, il soggetto stesso di quest’opera” e si spiegava stabilendo “il paragone con quel procedimento dello stemma che consiste nel metterne, entro il primo, un altro «en abyme»”. Les faux-monnayeurs (I falsari) di Gide è costruito su una mise en abyme visto che il romanzo racconta di un romanziere, Édouard, che sta scrivendo un romanzo intitolato Les faux-monnayeurs che vede come protagonista un romanziere.
Sono questioni, serie come quelle dei francobolli, che attraversano la mente quando al teatro India si osserva l’andirivieni fra la dormeuse e la scrivania della scrittrice che non riesce più a scrivere ma chiacchiera tanto nel monologo Smarrimento scritto e diretto da Lucia Calamaro “per e con” (come sta scritto in locandina) Lucia Mascino. Il “perecon”, informa la Tregatti, l’enciclopedia di ciò che non esiste, è uno strumento musicale smarrito che suona un fa da sol. La solista protagonista ha la testa popolata da vari personaggi di romanzo tutti incompiuti, lei stessa è un personaggio ma siccome non scrive, cioè non costruisce nulla, allora decostruisce e altro non riesce a fare che svestirsi in certo modo di se stessa davanti al pubblico, sicché la mise en abyme diventa la mise en déshabillé. L’evento indecidibile di Badiou si manifesta come non-evento della non-letteratura colpendo il reale già di per sé illetterato con la forza dell’essere un non-essere che non scrive neanche il non scrivere. Scrivere o non scrivere il non scrivere, questo è il problema. Tutto ciò probabilmente significa che se c’è chi scrive perché non ha nulla da dire, la scrittrice in scena invece parla perché non ha nulla da scrivere. Questo è un fatto comico in quanto quasi tutto ciò che fa rumore è ridicolo. Per converso, non c’è maggior tristezza di dirsi scrittore, perché a dipingere o comporre musica sono capaci in pochi, ma ci sono verbali di questura redatti con mano così straniante (lo scheletrico barocchismo della letteratura burocratica) che la maggior parte dei giallisti occupanti abusivi di librerie paiono dei telegrafisti.
Su questa non tragicommedia, sul malinconico comico del ridicolo non evento – il vuoto può essere più divertente del pieno – su ciò che non succede, sulla fisiologia del singulto ingolfato nella strozza (quando va bene la letteratura è respiratoria, altrimenti digestiva), Lucia Mascino s’adopera a tenere dritto lo spettacolo. Senza di lei, proprio una brava attrice, il monologo potrebbe rischiare d’adagiarsi sul pouf della letteratura plof. Allora sarebbero piume d’oca. Sono cose che si scrivono a misura di artiste in grado di indossare il testo come un vestito di sartoria. Molti vestiti indossa la Mascino, s’abbiglia della stoffa interiore dei personaggi che la scrittrice vorrebbe raccontare, ma non può, non ce la fa, la sofferenza degli uomini è densa e difficile da sciogliere nel racconto. Sta qui l’umanità dello spettacolo, nell’attrice che porta a passeggio ogni personaggio mostrandone il vestito dell’anima come si farebbe con una tigre di sarta.