“12 baci sulla bocca” di Mario Gelardi, al teatro Lo Spazio di Roma

12_baci sulla bocca 01_ Foto LUINO_

Gay sull’orlo di una crisi di nervi

12 baci sulla bocca, testo di Mario Gelardi, regia di Giuseppe Miale di Mauro, è una storia di amore omosessuale. Domanda: se si trattasse di una storia di amore eterosessuale, sarebbe interessante? Nella presentazione dello spettacolo, in scena a Roma al teatro Lo Spazio è scritto: “Poco importa che i protagonisti siano due uomini, perché Emilio e Massimo sono il simbolo di una libertà che negli anni Settanta era pura utopia, e oggi è finta democrazia”.
L’affermazione che negli anni Settanta la libertà, in particolare quella sessuale, fosse pura utopia a Roma ma anche a Milano, a Genova, a Firenze e pure a Sorrento, fa ridere. Magari era valida per il fondo della provincia napoletana in cui il testo è ambientato. Due battute di Paolo Poli, uno che se ne intende, in un’intervista al Corriere della Sera il 27 dicembre 2006 sono illuminanti. La prima: “Negli Anni Trenta l’educazione sessuale avveniva in famiglia. Noi eravamo sei bambini, poveri, figli di un carabiniere e di una maestra montessoriana. Io mettevo il ditino sotto la gonna delle mie sorelle e loro toccavano me; la domenica mattina mi infilavo nel letto di papà. Ho capito fin da piccolo di essere gay. Mi garbava il fornaio”. La seconda: “Questo bisogno di tenersi per mano come finocchie contente è roba da psicanalisti”. A un certo momento dello spettacolo, i due personaggi si tengono felicemente e clandestinamente per mano.
Tornando alla domanda, si ipotizzi che la storia sia la seguente: Emilia viene assunta come lavapiatti da Antonio, proprietario di un ristorante della provincia napoletana che ha un fratello, Massimo. Costui, che sta per sposarsi, inizia una tresca con Emilia. Alla fine dello spettacolo Antonio se ne accorge e dice a Massimo che certe cose non si devono fare. Come epilogo, una rapida e doverosa tragedia. Fine della storia, con la differenza che Emilia è Emilio. Un fattarello di vita, insomma, che si può raccontare a cena, fra amici, magari al ristorante di Antonio: ma lo sapete del fratello? Quindi il testo cerca di trovare una sua originalità proprio nel fatto che i due sono omosessuali, e la regia s’ingegna a trasformare questa drammaturgia inesistente in uno spettacolo che colpisca il pubblico. Allora indica al ristoratore di strillare parecchio e di sbattere i pugni sul tavolo per sostituire l’azione drammaturgica con quella sonora, poi monta una scena-chiave in cui al buio i due protagonisti nudi si rotolano e capitombolano con gran rumore e schianti e botti sul palcoscenico. Evidentemente stanno facendo l’amore, ma con un fracasso degno d’un autoscontro e una violenza che comprova uno stereotipo, ossia che il sesso fra omosessuali sia una partita brutale e prevaricatoria. In verità, la regia scade in un naturalismo rudimentale che non tiene conto del fatto che il teatro è il regno del verosimile e non del vero. In scena il vero della realtà suona falso se va bene, e dozzinale nei casi peggiori.
In tutto ciò non si capisce perché l’ambientazione è anni Settanta fin quando non si sente la radio annunciare la morte di Pier Paolo Pasolini: al pubblico quindi viene riconosciuto il diritto al più fastidioso dei luoghi comuni, vieppiù incoraggiato, se ve ne fosse bisogno, dal quarantennale dell’omicidio. Il povero Pasolini è diventato il Cristo in croce degli omosessuali, da sventolare a mo’ di esorcismo. Contro chi? Contro il grande esercito di satanassi anti-gay che, come tutti sanno, assedia la città alle mura aureliane e vigila occhiuto dall’interno delle mura leonine. Ma come ha detto Paolo Poli: “Il Papa fa il suo mestiere. Non possiamo pretendere che ci benedica e ci inviti a inchiappettarci l’un l’altro”.
Ottima la scelta delle musiche, quasi tutte anni Settanta, i migliori della nostra vita, anni di libertà e di grande teatro: Long train running dei The Dobbie Brothers, Crocodile rock di Elton John, Sereno è di Drupi, La Bohème di Charles Aznavour (che però data del ’65), Somebody to love dei Queen, Se bruciasse la città di Massimo Ranieri, Ipocrisia di Angela Luce.
In scena lavorano Francesco Di Leva, Stefano Meglio e Andrea Vellotti che rappresentano, dopo le musiche, il meglio dello spettacolo.

Marcantonio Lucidi,
Stampa Stampa

I commenti sono chiusi.