“Ottantanove” di Elvira Frosini e Daniele Timpano in scena assieme a Marco Cavalcoli. All’India di Roma

Ottantanove

La Rivoluzione è morta, viva la parrucca

Il grande storico Eric J. Hobsbawm sosteneva nel suo famoso saggio Il secolo breve che il Novecento è incominciato nel 1914 ed è finito con la caduta dell’impero sovietico nel 1991.
Elvira Frosini e Daniele Timpano, in scena al teatro India di Roma con il loro spettacolo Ottantanove, propongono invece una datazione diversa che va dalla Rivoluzione Francese alla caduta del Muro di Berlino. Un secolo lungo duecento anni che tutto sommato è un’idea, anzi una sensazione storico-temporale comprensibile perché possiede il fascino del ricorso numerico e perché, nel contesto dell’histoire événémentielle, come la chiamano oltralpe (il semplice racconto cronologico dei fatti), appare come un cerchio che si apre e si chiude: incomincia a Parigi con la Rivoluzione francese e termina a Berlino con la fine delle rivoluzioni. Questo periodo si potrebbe chiamare Età della Democrazia, parafrasando Hobsbawm, il quale si è occupato con profondità di tutto l’arco di questi duecento anni oltre che con Il secolo breve con una trilogia molto importante costituita da The Age of Revolution: Europe 1789-1848, The Age of Capital: 1848-1875 e The Age of Empire: 1875-1914. Età della Democrazia perché la democrazia è il tema centrale attorno al quale ruotano tutti gli altri e l’intero discorso sulla nostra polis. Di questo si occupa lo spettacolo di Frosini / Timpano. Vasto programma.
L’inizio, dal punto di vista teatrale, è notevole: un uomo si alza da una poltrona laterale della sala e si mette a blaterare un po’ di convincimenti ignobili e bassamente retrogradi su omosessuali, africani e sul complotto contro Dio. Mette quasi il nervoso. Fra parentesi: magari i reazionari fossero tutti così stupidi, le cose sarebbero più semplici. Poi viene fuori questa idea: la rivoluzione protestante è stata fatta contro la Chiesa; quella francese contro la Chiesa e lo Stato; la comunista contro Chiesa, Stato e proprietà privata; il ’68 contro Chiesa, Stato, società e famiglia. La rivoluzione è morta, insomma, viva la reazione. Quale grido è più disperato? Elvira Frosini e Daniele Timpano, per questo spettacolo in formazione di trio assieme a Marco Cavalcoli, si muovono sul crinale fra conservatorismo, nazionalismo, intolleranza, xenofobia. Si tratta di un gioco pericoloso che può essere fatto di fronte a un pubblico colto, ironico, in grado di capire le sfumature di vero nel falso e di falso nel vero. “I francesi hanno rubato tutte le nostre opere d’arte”.  E La Marsigliese, ufficialmente attribuita a Rouget de Lisle, è un plagio, i francesi hanno copiato la musica di un italiano, Giovan Battista Viotti. Può darsi ma il Canto di guerra dell’armata del Reno – così si chiamava in origine – è stato in questi venti decenni attribuito, di volta in volta, a un certo Holtzmann, maestro di cappella del Palatinato, il quale però sembra non essere mai esistito; a Jean-Baptiste Lucien Grisons, maestro di cappella a Saint-Omer; a Ignace Joseph Pleyel, compositore, editore musicale e fabbricante di pianoforti; a Guillaume Navoigille, primo dei secondi violini al parigino Théâtre de Monsieur e successivamente direttore d’orchestra del théâtre de la Cité-Variétés. Quanto può essere complicato maneggiare fatti storici, fosse semplicemente l’individuazione non oppugnabile dell’autore d’una canzone invero assai nota.
Nella presentazione dello spettacolo si legge: “Passato e presente, storia francese e storia italiana, modernità e postmodernità si sovrappongono sul palco in un percorso volto a mettere in crisi le nostre vite “democratiche” e l’immaginario legato al concetto di rivoluzione”. Nel Dizionario critico della Rivoluzione francese di François Furet e Mona Ozouf, uscito in Francia nel 1988, pochi mesi prima del bicentenario, alla parola “Democrazia” si legge: “Per la maggior parte dei “filosofi”, la democrazia appartiene a un passato irrimediabilmente concluso (le piccole città antiche) e, in ogni caso, essa sembra impraticabile in un grande stato come la Francia in cui la complessità dei rapporti sociali, l’estensione del territorio e il numero degli abitanti sembrano impedire una deliberazione collettiva del popolo intero sulle questioni pubbliche”. Per il lemma “Rivoluzione”, il Dizionario informa: “In effetti, nel XVIII secolo la rivoluzione è prima di tutto il ritorno di formule già apparse”. E tre lunghe, complesse pagine dopo chiarisce a proposito specificamente del 1789: “Fin dai suoi primi passi, la rivoluzione si considera come la decisiva liberazione da tutti i modelli storici”. Scherza con la memoria ma non con la Storia. Ecco perché il teatro, che è pensiero, difficilmente può diventare un’attività intellettuale e fare critica storica. Il suo ambito è metastorico e metaforico, il suo strumento è poetico, la sua materia è l’uomo del quale si occupa come soggetto piuttosto che come oggetto.
Cosa quindi vogliono raccontare Elvira Frosini e Daniele Timpano? Qui c’è un po’ di tutto, una specie di cafarnao, roba alla rinfusa, ammasso di vicende varie. Persone, parole e cose: Voltaire, Rousseau, Montaigne, d’Alembert, Diderot, Vittorio Alfieri con i suoi anni parigini e la sua opera satirica Il misogallo, letteralmente “colui che odia i francesi”; ragione, libertà, popolo, calendario (rivoluzionario), teatro (della rivoluzione); la storia del palo della sala della Convenzione che da solo regge le tribune della plebe e non si capisce come non crolli di colpo (un dettaglio buffo raccontato dal cardinale de Bausset nelle sue Memorie aneddotiche sull’interno del palazzo e su qualche avvenimento dell’Impero dal 1805 al 1° maggio 1814); la messinscena del ‘57 di Giorgio Strehler de I giacobini, di un drammaturgo e sceneggiatore ormai poco ricordato, Federico Zardi (1912 – 1971), dramma con protagonista l’arcangelo della rivoluzione Saint-Just adattato per uno sceneggiato televisivo diretto nel ‘62 da Edmo Fenoglio. Grande amico di Robespierre e suo fedele alleato, ghigliottinato assieme a lui il giorno dopo il 9 Termidoro, Louis-Antoine-Lion Saint-Just: l’arcangelo della morte lo chiamava il grande storico ottocentesco Jules Michelet, autore di una Storia di Francia in 19 volumi e di una Storia della rivoluzione francese in sette.
In certi momenti, lo spettacolo somiglia quasi a una di quelle esibizioni di comizianti più o meno improvvisati e ascoltati del cosiddetto Speaker’s corner, angolo degli oratori, di Hyde Park a Londra, uno dei luoghi dell’occidente dove più è protetta e praticata la libertà di espressione. “Scendiamo in piazza e prendiamo la Bastiglia? Scendiamo in piazza a vedere quelli che scendono in piazza?”.  Altre volte sembra di assistere a una sorta di cabaret politico disperato, con un divertentissimo balletto assurdo sul ritmo delle parole francesi più usate in italiano e con la Marsigliese tradotta che pare una canzoncina. “La rivoluzione non dobbiamo farla, dobbiamo ricordarla”. Lo spettacolo si conclude con i tre attori che indossano parrucche ancien régime.
Da questo caos, da questa confusione che è quella delle nostre menti in questi anni (ma l’uomo ha mai goduto d’un secolo di menti ordinate, salvo quelle di pochi eletti?), i tre artisti in scena sanno cavare teatro. Non è cosa semplice in questo caso, ad andare fuori tempo basta poco, a diventare prolissi e noiosi ancor meno. Ma loro, e questo è un fatto notevole, mantengono ordine nel disordine, non cadono nella trappola di dare allo spettacolo le caratteristiche dell’argomento, di fare del teatro scompigliato perché scompigliata è la mente degli uomini. Restano rigorosi e questa è la maggior rivoluzione quando la Rivoluzione è morta. Il teatro ha le sue ragioni che l’intelletto non conosce.

Marcantonio Lucidi,
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