Due atti unici di Anton Giulio Calenda, regia di Alessandro Di Murro, con gli attori della Compagnia della Creta. Al teatro Basilica di Roma
Dalla società di massa alla società di messa
Dentro un titolo unificante, La regola dei giochi, si trovano cinque atti unici scritti da Anton Giulio Calenda allestiti al teatro Basilica dal Gruppo della Creta con la regia di Alessandro Di Murro. Gli atti vanno in scena alternati una volta al mese per quattro giorni. Il prossimo appuntamento è previsto dal 16 al 19 dicembre.
Si legge nella presentazione di questo format, come viene chiamato: “Alla volontà di dialogare con il formato seriale che tanto appassiona il pubblico di tutto il mondo è conseguita l’ideazione de La Regola dei Giochi che nel contesto del costume odierno appare come una sfida: quella di portare le persone a teatro proponendo loro una fruizione analoga a quella che sono abituate a vedere sugli schermi”. La meravigliosa imprevedibilità dell’arte teatrale, e dell’arte in generale, è una gran fortuna che impedisce a registi e attori di accorgersi di stare facendo altro da quanto si prefiggono. I due atti unici visti l’altra sera, Ucronia o va tutto bene e Soldati, non offrono per niente una fruizione analoga a quella proposta dagli schermi; appaiono invece molto teatrali. Anzi la regia di Di Murro è proprio teatrosa, se così si potesse dire. C’è un senso della messinscena come costruzione di simboli e di segni semplici ma immaginosi e altamente significativi che tocca l’essenza del linguaggio teatrale.
L’unico aspetto che potrebbe appaiare i due testi brevi a una puntata di fiction è la durata, meno di un’ora ciascuno. Però diversamente dal tempo della fiction, veloce nell’episodio (quando va bene) e lento nella storia, il tempo del teatro è sempre rapido (se rallenta entra in sonno) e può sintetizzare la vita in un attimo. In questo sta la sua eterna modernità. Catastrophe di Samuel Beckett dura sei minuti ed è uno dei drammi politici più importanti degli ultimi cinquant’anni, scritto nel 1982 in onore di Vaclav Havel all’epoca prigioniero politico nelle carceri della dittatura comunista cecoslovacca. In Ucronia o va tutto bene la protagonista, una ragazza in intimo bianco, biondissima e con le labbra rossissime, una bambola alla Marilyn Monroe, è incarcerata in un ottaedro sospeso a mezz’aria con i lati illuminati da tubi al neon. La parola “ucronia” indica la sostituzione di avvenimenti storici con fatti immaginari. Per esempio: cosa sarebbe successo se Napoleone avesse vinto a Waterloo o se Hitler fosse riuscito a conquistare Stalingrado?
La vicenda si svolge in un mondo successivo alla catastrofe della guerra sino-americana vinta dagli Stati Uniti. Ora si vive in pace nel nuovo sangiaccato di Google, si fanno google-vacanze, in tv si vedono google-programmi, il sole è oscurato da mega-Google lampadine, il mondo è diviso in regni di Amazon e di Facebook, l’Europa è diventata una colonia commerciale di Apple. “Dopo la guerra è arrivata la libertà”, informa euforica ed enfatica la ragazza, la quale non è una prigioniera politica ma una tossicodipendente ideologica.
L’ottaedro non rappresenta una cella, piuttosto la gabbia del pensiero unico. Un uomo in pattini a rotelle fosforescenti le gira attorno mentre lei ancheggia smancerosa emanando la sensualità da coniglietta di Playboy di una nivea massaia americana davanti a una nuova macchina per il ghiaccio. Sculetta e sproloquia logorroiche stupidaggini di giuliva pupattola seminuda sentenziando tutto d’un fiato aforismi da supermercato di Venice, California: “dopo la guerra è arrivata la libertà”, “nel sangiaccato di Google i poveri non si vedono più” “a Cuba hanno messo i mega casinò”, “finalmente i poli si sono squagliati”, “l’acqua dei poli è stata rovesciata sull’Africa e hanno risolto il problema della sovrappopolazione”, “Il mondo è pulito adesso”. Quest’ultima sentenza non appartiene solo alla fantasia ucronica dell’autore ma alla scemenza cronica di persone reali: si racconta che il 20 gennaio 1989, ultimo giorno della presidenza di Ronald Reagan, il segretario di Stato George Shultz entrasse nello Studio Ovale e dicesse: “Il mondo è tranquillo oggi, presidente”. Meno di dieci mesi dopo, il 9 novembre dello stesso anno, cadeva il Muro di Berlino.
L’atto unico è talmente chiaro nei suoi significati che non necessita di glosse riguardo lo scherno antireazionario, lo sghignazzo anticonsumista (si sente qui l’idea che il consumismo sia una forma moderna di fascismo), il dileggio dell’omologazione conformistica che caratterizza la nostra società iperideologizzata (altro che post-ideologica), riarticolata negli ultimi decenni dalla dittatura di un pensiero unico bigotto e pornografico, intellettualmente poliziesco e censorio. L’attrice, Laura Pannia, a un certo momento copre mutande e reggiseni bianchi con un vestito rosso. Deve andare verso un finale violento, non truce però, grottesco come tutto l’atto unico che deve essere recitato proprio come fa lei, interamente su tempi comici, sulla modulazione dei toni, sempre un tantino sopra, giusto il necessario per tenere le battute sul registro farsesco con un bel lavoro sui fiati, sulle pause, sulle accelerazioni. Quando il regista dirige bene e l’attore esegue meglio, non si può capire di chi è il merito. Non è da meno Amedeo Monda, il pattinatore che rappresenta il gendarme della nuova religione sociale, capace di bastonare persino i sostenitori più fanatici della liturgia della felicità e di uccidere Marilyn, paradossale mito di fondazione. Dalla società di massa alla società di messa. Una fede finalmente al contempo atea e disumana, che riesce a non credere né in dio né nell’uomo e può sacrificare tutt’e due in nome della propria eternità nella fine della Storia. Monda va per quasi tutto lo spettacolo d’appoggio in controscena, ha poche battute, sta sempre a pattinare in tondo, la sua parte è quasi una tinca, come si dice in gergo teatrale, impegnativa, gravosa e di poca soddisfazione ma lui la sfrutta al meglio. Il finale è suo.
Il secondo atto unico dell’altra sera, Soldati, è la storia di due commilitoni, armati e bardati che girano in tondo e vanno alla guerra. Qui c’è meno sarcasmo e più tragedia, è tutto un dialogo fra loro sul nemico, la pace, la gerarchia militare, le verità dei capi. Anche loro sono dei drogati ideologici ma uno un po’ meno dell’altro. La tragedia si poserà sulle spalle di chi porta un dubbio. I ragionamenti dei due militari subiscono torsioni sul piano della morale e dell’etica, la logica deve essere piegata a giustificare la guerra e l’uccisione del nemico, il quale rappresenta ovviamente l’altro, lo straniero, lo sconosciuto.
Stavolta l’atto unico di Anton Giulio Calenda, a differenza del precedente, non è più surreale, quindi grottesco, ma realistico, quasi iperrealistico come la pittura sovietica, di conseguenza genera un sentimento di alienazione (la sottomissione della persona a un servaggio cieco). Sono Matteo Baronchelli e Alessandro De Feo a interpretare i soldati, anche loro bene in parte, attori solidi che si spera di vedere in altre occasioni e in altri ruoli per apprezzarne qualità più sottili dell’affidabilità.
Il gusto individuale può dare preferenza all’uno o all’altro atto unico, ma è chiaro da questi primi due che l’operazione complessiva si annuncia interessante. Si capirà a dicembre, quando tornerà l’occasione di vedere gli altri tre testi, intitolati Il regno, storia di un re onnipotente; Matteo, tragedia dell’incomunicabilità in una coppia alto-borghese; e Squali, uno studio marino che racconta di quanto succede fra quattro amici si una barca alla deriva circondata da pescecani. Evidentemente si racconterà ancora una volta di dove e come viviamo, quindi si farà teatro politico.