“Love”, testo e regia di Alexander Zeldin, produzione originale National Theatre of Great Britain. All’Argentina di Roma

Love

Casa, amara casa

Il palcoscenico è illuminato dalle forti luci di servizio bianche al neon, anche quelle di sala rimangono accese. È il segno che si sta non davanti ma dentro uno spettacolo crudamente, crudelmente, realistico. Non vi sono concessioni alla metafora teatrale, fatta salva ovviamente l’insopprimibile natura metaforica dell’atto stesso di rappresentazione. La scena immutabile di Love, scritto e diretto da Alexander Zeldin, all’Argentina in inglese con sovratitoli in italiano, è la sala comune di un centro di accoglienza britannico. Tavoli per mangiare, sedie, cucina e lavello a destra, la porta del bagno a sinistra, altre porte che si aprono (soprattutto si chiudono) sulle camere degli ospiti. Gente che ha perso la casa, è stata sfrattata, non ha lavoro, vive di sussidi. Un uomo di mezz’età con la madre vecchia, malata, malandata. Una famiglia, lui, la sua nuova compagna meticcia e incinta, una figlia preadolescente e un figlio un po’ più grande, teen-ager odioso, insolente, scorbutico. Un’esiliata sudanese. Un rifugiato siriano che quasi non si vede, ogni tanto passa rapidamente, chissà dove va e cosa fa. Il Natale si avvicina. Pensionati al minimo, sotto il minimo; disoccupati, ai giardinetti piove; immigrati, possiedono solo una tazza per la prima colazione e intendono difenderla. Lottano per la sopravvivenza ma soprattutto per la dignità, difficile da conservare in questa situazione coatta, in questa convivenza casuale e forzata, i turni per andare al bagno, per cucinare, mangiare, lavare i piatti. Promiscuità umiliante, difficoltà esistenziali, preoccupazioni, problemi di salute, disturbi intestinali, i conflitti, la violenza e il suo controllo attraverso una buona educazione e un formalismo comici e necessari, la speranza sempre delusa, la delusione sempre speranzosa, gli affetti, forse persino la condivisione e la comprensione, umanità dispersa che attende, non fa che attendere qualcosa, un’altra vita, un nuovo alloggio, un lavoro. Questa mattina, o domani mattina, ieri purtroppo no, la burocrazia statale, macchina indifferente, fredda, meccanicamente feroce, produrrà certamente, forse, chissà, pratiche amministrative, autorizzazioni, concessioni, permessi, adesso telefono, vado, chiedo.
Lo spettacolo ha debuttato nel 2016 al National Theatre di Londra per raccogliere successi in Gran Bretagna e in Francia. Il caso vuole che arrivi in una Roma occupata militarmente con elicotteri, autoblindo, volanti, mitra, cecchini sui tetti, da un’oligarchia internazionale protetta da interminabili scorte che include satrapi macellai come Erdogan, criminali ambientali alla Bolsonaro, rappresentanti di assassini del calibro di Putin, del genocida Xi Jinpin, dello psicopatico Muhammad Bin Salman. Due giorni di soprusi e di prevaricazioni in tutta la città da parte di una banda di sopraffattori impuniti, il più potente dei quali, Joe Biden, è un ex senatore del Delaware, paradiso fiscale che toglie ai poveri per dare ai ricchi denaro ripulito. Sarebbero i soldi indispensabili ad assicurare politiche di welfare e di solidarietà, a non disperdere il patrimonio umano dei protagonisti di Love, ad impedire soprattutto che l’unica dea che conti sia la Fortuna, fortuna di nascita, di censo, di relazioni, di occasioni, fortuna nel possedere casualmente il talento richiesto nell’epoca in cui si vive. Quello che volgarmente si chiama “culo”. Il 1789 non è stato una rivoluzione contro i soldi – i rivoluzionari non erano così stupidi – ma contro l’ingiustizia e il culo. Questa era l’ambizione dei sanculotti.
Non si riscontra nostalgia della “macchina per accorciare”, nessun livore, nessun desiderio di vendetta, in questo spettacolo che non a caso si intitola Love. Il naturalismo che segna esteticamente la rappresentazione è un procedimento tecnico atto a indurre nello spettatore una percezione intensa dei sentimenti espressi dai personaggi, l’amorevolezza, la comprensione, la compassione. Un effetto naturalistico che, come tutti gli artifici, è antinaturalistico. Non c’è niente da fare: “Benvenuti a teatro dove tutto è finto ma niente è falso” diceva Gigi Proietti di cui oggi, 2 novembre, ricorre il primo anniversario della morte.
Per quanto una regia possa essere intelligente, abile, originale, decisivi sono sempre gli attori. Molto bravi tutti gli elementi della compagnia, sembrano appartenere a quella schiatta molto inglese di artisti della scena che non si appesantiscono di teorie sulla recitazione e di metodologie dell’attore. È gente che sa lavorare con il proprio corpo e la propria voce, sa muoversi e intonare. E che risponderebbe esattamente come Laurence Olivier alla domanda di Dustin Hoffman il quale, affaticato dalle ore di jogging per allenarsi a interpretare il maratoneta, gli chiese, stupito della sua calma e della tranquillità: “Ma lei, Maestro, come fa?” “Me? I play” Io? Recito.
In scena Amelda Brown, Naby Dakhli, Janet Etuk, Oliver Finnegan, Joel MacCormack, Hind Swareldahab, Daniel York Loh, mentre Amelia Finnegan si alterna con Grace Willoughby.

Marcantonio Lucidi,
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