“Peng” di Marius von Mayenburg, regia di Giacomo Bisordi, con Fausto Cabra, Sara Borsarelli, Gianluigi Fogacci. Al Vascello di Roma

Peng

Psicotico, catodico, politico

“Peng” in tedesco è una parola onomatopeica, in italiano equivale a “bum” o “bang”, il rumore di uno scoppio. È il titolo di un dramma di Marius von Mayenburg andato in scena in prima nazionale al Vascello di Roma con la traduzione di Clelia Notarbartolo e la regia di Giacomo Bisordi. “Peng” però esiste anche nello slang inglese e significa “bello” “attraente”. Una battuta del protagonista recita: “Il bello è brutto e il brutto è bello”.  Peng è una distopia che l’autore ha scritto nel 2017 poco dopo l’elezione a presidente degli Stati Uniti di un soggetto malvagio dai tratti fisici, caratteriali e psicologici demoniaci. Per le teorie del complotto, il demone Trump è angelico e salverà l’umanità. È il mondo capovolto.
Lo spettacolo è una rappresentazione delle caratteristiche che assumono oggi, nel tempo della televisione, dei media e del web marketing politico, la perfidia disumana e il potere al servizio dell’odio. Nelle sue opere, l’autore non dimostra indulgenza nei confronti dell’umanità: in una delle ultime, Marte, si racconta che la Terra è spacciata e che l’unica salvezza è la fuga verso altri pianeti ma non c’è posto per tutti sulla navicella spaziale. In un’altra, Le scimmie, un industriale decide, siccome l’umanità non è degna, di involvere allo stadio di quadrumane.
Dopo avere strangolato la sorella gemella nell’utero materno, Ralf Peng nasce in una società violenta e globalizzata come la nostra, solo più farsesca, da un padre e una madre borghesi benestanti e politicamente corretti, attenti all’ambiente, al biologico, alla tolleranza, all’apertura delle idee. Oh, meravigliosi genitori progressisti che adorano il loro bambino mostruoso, nato già assassino e adulto, che cava un occhio al suo insegnante di violino colpevole di giudicarlo totalmente privo di talento musicale. Mamma e papà lo adorano, ritengono un genio precoce il loro sanguinario figliolo, il quale ha una sola idea in testa: conquistare il potere, schiacciare il prossimo, umiliare le donne. Incorona la perdente di un quiz televisivo con un secchio pieno di sterco, deride la vicina riempita di botte dal marito, esalta lo stupro, molesta le ragazze. Si presenta alle elezioni con il programma politico di fare sparire le donne, un cameraman proietta sugli schermi il Truman show delle nefandezze di Peng, verbali, fisiche, ogni cosa è in disordine, pistole, mitragliatrici, risse, stacchi pubblicitari, la madre viene degradata a oggetto da televisione trash. Un blob sulle nostre esistenze in questi anni ma drammaturgicamente coerente, efficace. L’autore ci guarda e ci riproduce, grotteschi esseri contemporanei assuefatti alle ignominie televisive ammannite da presentatrici sessantenni oscene e squallidamente pettorute, dipendenti da conduttori di reality sporchi di ferocia e scostumatezza che vendono carne umana in scatola a colori, e drogati dai politici, di cui un “trump”, un “peto” nello slang americano, rappresenta l’esempio più blasfemo di avide ibridazioni fra potere, televisione e copula.
Stupisce l’odio che Peng prova nei confronti delle donne, come se il comando passasse obbligatoriamente per la loro sopraffazione prima ancora che per l’asservimento di tutta la popolazione. Su questo tema arriva però un pistolotto finale, che è un errore in un contesto così crudo e distopico: un monologo in cui si sostiene che gli uomini uccidono non perché sono terroristi o fondamentalisti, ma perché sono uomini, per il testosterone. Di femmine assassine la storia ne conta a volontà, guerresche comme Margaret Thatcher, stragiste come Caterina de’ Medici, regina madre di Francia, che ordinò il massacro di migliaia di ugonotti nella notte di San Bartolomeo. Vecchia banalità, questa del testosterone, frutto di pregiudizi dogmatici che censurano qualsiasi opinione non allineata a moralismi ideologici.
Peng è uno spettacolo duro e sardonico che si può amare e ritenere appropriato al nostro momento storico, oppure trovare disturbante ed eccessivo. Però, nel corso della rappresentazione, non smentisce mai la propria coerenza estetica e poetica e si sviluppa compatto e logico nella sua deformazione alienata. Possiede inoltre una caratteristica pregevole: mostra la violenza senza incitare alla violenza, costituisce una lezione di critica sociale a tutti quegli sceneggiatori e registi che scrivono e girano film e soprattutto serie televisive gonfi di ferocia, di brutalità, che eroicizzano i criminali per fare audience e si giustificano ipocritamente con la penosa scusa di mostrare la realtà. E persino si atteggiano a benefattori dell’umanità che risvegliano le coscienze mentre con il loro pornografico naturalismo scaricano sulla società esaltazioni del sangue e del crimine che eccitano e degradano gli spiriti deboli ed emarginati, inducendoli all’imitazione. Peng invece si fa apologo umoristico – l’umorismo salva ogni cosa – ridicolizza e rende grotteschi, quindi improponibili, l’egotismo distruttivo del mostro umano, la tarantola psicotica della frenesia di potere, l’autismo masturbatorio della sopraffazione.
Satirica e distopica quindi è anche la regia di Giacomo Bisordi che, in sintonia con il testo, costruisce la messinscena come una corsa a perdifiato dentro un caos razionale, teatralmente pensato e organizzato, in cui viene dispiegato il disordine dello squallore senza che mai l’allestimento scada nel disordinato e nello squallido. Chiaramente si tratta di uno spettacolo difficile da montare e faticoso, ma in cui le scene sembrano scorrere facilmente, anche se tagliando qualche minuto acquisirebbe ancor più sveltezza. Non si può fare bene Peng senza un gruppo di attori abile nell’arte. La regia chiede cose complesse, bisogna essere bravi, semplicemente bravi, sapere tenere il ritmo (che non è soltanto correre), avere mano ferma su personaggi difficili, ambigui, sfaccettati. Fausto Cabra è il protagonista, Peng, e si muove in un contesto corale nel quale a lui sono affidati i cambi di passo e di tensione dello spettacolo, per esempio i passaggi dalle situazioni familiari del personaggio alle sue manifestazioni pubbliche politiche e televisive. Tuttavia protagonisti, in quanto rappresentano l’emblema della borghesia di finta sinistra stolida, moralista e gorgogliante di benessere che genera il mostro, sono anche Sara Borsarelli (la madre) – volto espressivo e intenso, mimica forte, dotata di una malinconia sottile, soffusa su tutta la sua interpretazione – e Gianluigi Fogacci – il quale tratta ironicamente il suo ruolo del padre con un certo distacco. Non da meno tutti gli altri: Giuseppe Sartori, Francesco Giordano e Anna Chiara Colombo. Scene e luci di Marco Giusti, costumi di Francesco Esposito.
Manuela Kustermann offre in video registrati dei divertenti spot pensati come parodie, verrebbe da dire ragli, di questi altri distruttori di civiltà che sono i pubblicitari.

Marcantonio Lucidi,
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