“L’uomo, la bestia e la virtù” di Pirandello, regia di Giancarlo Nicoletti, con Giorgio Colangeli, Vincenzo De Michele, Valentina Perrella. Alla Sala Umberto di Roma
Il moralismo sulla punta delle corna
Il professor Paolino – l’uomo – è l’amante della virtù, la signora Perrella sposata alla bestia, un capitano di marina che sta sempre via e conduce una vita allegra. Le rare volte che torna, il marito, dal carattere infernale, tratta la moglie con estrema freddezza e villania, evitando qualsiasi rapporto amoroso per la paura d’avere ulteriori figli oltre al suo legittimo e a quelli sparsi per il mondo. Si dice che abbia anche una seconda casa con un’altra donna, a Napoli.
Il guaio è che Paolino, mite professore che campa con lezioni private, ha messo incinta la signora Perrella, la quale tanto onesta non pare però resta comunque una pudica beghina, è una virtù che poi, chissà come mai, non è virtù. E questa è già una contraddizione drammaturgica perché non viene risolta l’inverosimiglianza di questa specie di suora laica che ritiene peccaminose persino le proprie gonne monacali ma si concede a un amante. Tuttavia Pirandello che, come ognun sa, è l’autore de L’uomo, la bestia e la virtù, attualmente in scena alla Sala Umberto di Roma con la regia di Giancarlo Nicoletti, ha altro per la testa con questa commedia e non si cura di pinzillacchere sulla coerenza dei personaggi. Lui è fissato col tarlo suo originalissimo di dimostrare quanto è brutto essere schiavi delle ipocrisie e delle convenzioni sociali. Infatti mette Paolino nelle condizioni di dovere spingere l’amante ad andare a letto col marito in modo da coprire la gravidanza e attribuire il ragazzino alla bestia. Quindi il lazzarone, costruito dall’autore come uomo di onestà e rettitudine inscalfibili, organizza la truffa: oltre a preparare con l’aiuto d’un amico farmacista pasticci afrodisiaci per la cena del Capitano, sovrintende ai preparativi d’una ritrosa virtù che ha da mutarsi in malafemmina, con abito, trucco e modi sfacciati, di modo da attizzare il marito e indurlo al dovere coniugale. “Patetico capovolgimento che illustra gli «idola» suscitati da Pirandello nella sua lotta contro le convenzioni e nel momento stesso che le rimuove: trovata di un moralismo dilettantesco”. Ottima sintesi di un grande intellettuale e critico teatrale del passato, Gerardo Guerrieri.
Il fatto è che l’autore devia verso la farsa di corna. Però è serioso, impettito, cattedratico. Riesce di tanto in tanto a tirar fuori la battuta comica ma non è ironico riguardo gli uomini e le loro debolezze, al massimo grottesco. Ossia non lavora per sottrazione, per svalutazione ma per eccesso, per caricatura e deformazione. Alla fin fine dimostra solo ferocia, che è la caratteristica del drammaturgo privo dello sguardo beffardo e disincantato dei boulevardiers francesi, con i loro cornuti in pigiama e le cocottes nell’armadio, i Feydeau, i Labiche, che ci insegnano a guardare la vita. Pirandello ci insegna soltanto a guardare la morte (senza trasmetterci la saggezza della tradizione socratica per la quale filosofare significa imparare a morire).
L’allestimento diretto da Giancarlo Nicoletti vuole essere un’edizione del centenario, l’opera essendo andata per la prima volta in scena nel 1919, ma c’è stata la pandemia che ha bloccato tutto ed ora viene riprogrammato. Il regista non si perita di sfruttare il grottesco che la commedia contiene e fa benissimo, è un buon modo per nascondere il moralismo. Non si capiscono però le ragioni di altre scelte: per esempio la linea di moda della costumista Giulia Pajarulo che si è inventata alcune bizzarrie vestimentarie di stile maoista per gli attori impegnati nei ruoli minori degli studenti di Paolino. Ha messo addosso al professore una giacca e una cravatta che possono andare bene per un impiegato del catasto, un tranviere in pensione, un avvocato parafangaro, un oculista catarattaro, un giornalista, due giornalisti, un passeggiatore con cane, un passeggiatore senza cane, un elettricista fuori servizio e l’ultimo che spegne la luce. C’è una differenza teatrale fra un abito anonimo e l’abito di un uomo anonimo. Meglio va, nel rapporto fra costume e personaggio, al Capitano di marina che viene messo in pigiama e addirittura in mutande proprio come i mariti becchi delle commedie francesi. Invece il segno forte dell’intervento scenografico di Laura De Stasio è una radio a valvole anni Cinquanta congrua come la registrazione di O mio babbino caro dal Gianni Schicchi di Puccini che si sente nel finale. Forse è un modo di indicare che la bestia diventerà papà?
Agli attori vanno tutti i meriti anche se qualche movimento pare scombinato, cose tipo il capitano che intima alla serva di andare a fare il caffè e indica col dito la camera da letto mentre la cucina è sul lato opposto. La stranezza è forse dovuta a un errore di posizionamento che costringe l’attrice a compiere un mezzo giro di palcoscenico per prendersi il tempo di battuta prima di uscire di scena. Cose tecniche che però non sminuiscono la prova complessiva degli interpreti: Giorgio Colangeli si muove sicuro nel carattere fragile di Paolino, un borghesuccio timoroso e privo di fascino che però deve avere un minimo di credibilità nella sua posizione di amante d’una donna piacente, deve sostenere l’idea che anche i professori di ripetizioni d’italiano hanno un’anima (come i bancari) e trovano signore che offrono loro qualche ora d’amore passionale. Con un bel ghigno di animale d’angiporto si presenta nel secondo atto Vincenzo De Michele, una bestia energica, sfrontata, villana, ciarliera, ridanciana. Spaccone di carattere e di fatto che l’interprete sfrutta fino a dar l’impressione di prenderlo pure in giro, questo personaggio sopra le righe finito in una commedia di Pirandello come un capitan Spaventa a un funerale. Funerea, con sempiterna aria di condannata al patibolo è la signora Perella di Valentina Perrella (quasi un caso di omonimia fra interprete e personaggio), che deve essere santa per sé e puttana per il marito, casta e impudica. Recitare su questo crinale non è semplicissimo, l’attrice dà l’impressione di avanzare nella commedia un po’ con i freni tirati. Sicché non sfrutta a fondo le occasioni comiche generate dal cozzo fra il bigottismo e la sfrontatezza. Centrare l’interpretazione della monaca svergognata pudibonda show girl sarebbe peraltro un modo di risolvere in forma spettacolare la contraddizione drammaturgica del personaggio. Una citazione va alla divertente Cristina Todaro che fa la domestica in modo eccessivo, macchiettistico. Luci giuste di Daniele Manenti fin quando almeno due volte la regia non chiede cambi a effetto, emozionali, che non dialogano bene con una messinscena d’impianto realistico che va sul grottesco, non sul surreale o sull’espressionistico. Per arrivare al grottesco, il reale è più che sufficiente.