“D.n.a. – Dopo la nuova alba” di Anton Giulio Calenda, regia di Alessandro Di Murro. Al teatro Basilica di Roma
Fra l’inizio della fine e la fine dell’inizio
Forse si parla di una donna reclusa in un ospedale psichiatrico. Forse della fine del mondo, di questo mondo, e di una nuova era. Forse della pandemia, apodittica e palingenetica (questo c’era da aspettarselo). Nello spettacolo scritto da Anton Giulio Calenda, D.n.a. – dopo la nuova alba, diretto da Alessandro Di Murro al teatro Basilica di Roma, non si capisce se si sta al principio genetico delle cose, come suggerisce il titolo, oppure oltre la fine, come indica il sottotitolo.
Comunque fra l’inizio della fine e la fine dell’inizio, fra l’utopico distopico e lo psicotico nevrotico, passa un po’ di gente, pure Plutone, Saturno, Nettuno e forse anche il grosso e presuntuoso Giove che fanno gli dèi annoiati e si gingillano. Con cosa? Ma che domanda, con i destini dell’umanità. Questo testo è un miscuglio, un garbuglio, un calderone, un minestrone: psichiatri di bianco vestiti parlano di pazzi, pazze in camicia di forza parlano di psichiatria, un politico parla forse di politica e anche di cose sue, due tizi mascherati parlano non si capisce bene di cosa ma tanto c’è il programma di sala che serve a chiarire. Insomma un mélange, un pot-pourri un po’ pourri da tirate trash su feti e sfinteri. Gli interpreti fanno il loro mestiere, cioè quanto possono in tali circostanze: Jacopo Cinque, Alessio Esposito, Maria Lomurno, Eleonora Notaro, Laura Pannia.
La metafora è evidente: siamo malati di mente e neanche Freud si sente tanto bene, siamo soli e gli dèi se ne fregano, la civiltà è ricoverata in una clinica psichiatrica per un’epidemia di peste della ragione. Alla fine dello spettacolo, la conclusione è finalmente chiara: si sta all’oscuro.