“La castellana” di Giuseppe Manfridi, regia di Lina Milano, con Ester Alfonsi. al teatro Ar.Ma di Roma
Gotico sfarfallante
Nelle locandine vi sono a volte degli indizi che subito insospettiscono: fra i crediti de La castellana, di Giuseppe Manfridi, regia di Lina Milano, con Ester Alfonsi, disegno luci e fonica Diego Placidi, scene Giulia Colombo, si legge: “Sguardo artistico Loredana Battistin”.
Cos’è lo sguardo artistico? “E tu lo capirai / solo da uno sguardo / tu lo scoprirai” (Dalla pelle al cuore, Antonello Venditti); “Quel gufo con gli occhiali che sguardo che ha / Lo prendi papà? Sì!” (Sei forte papà, Gianni Morandi). La regista si sarà avvalsa di un occhio, Occhio malocchio prezzemolo e finocchio (film del 1983 di Sergio Martino, con Lino Banfi e Johnny Dorelli) seduto in sala durante le prove e serio, pignolo, diagnostico: “Il tuo sguardo è una tac / è una risonanza magnetica / il tuo giudizio è libertà vigilata / o sedia elettrica” (Con uno sguardo, Jovanotti). Non è roba per banali critici teatrali, questo spettacolo in scena al teatro Ar.Ma di Roma è arte contemporanea: un monologo per attrice, che si intuisce costruito come una partita di di flipper, la pallina dei consigli e delle considerazioni che corre e sbatte dallo sguardo alla regia. L’interprete solista, di braccia sfarfallante, è tutta una maniera di vocette, di vocine, di smorfiette, di manine, di svolazzi e arazzi e aerorazzi recitativi sobri come il vestito da sposa d’una parrucchiera di Torre Annunziata.
La contessa ungherese Eszrébet (Elisabetta) Bathory che nel XVI secolo beveva il sangue di fanciulle vergini come elisir di eterna giovinezza e se lo spalmava sulla pelle a mo’ di cosmetico antirughe, diventa con Ester Alfonsi una Draculetta da fumetto pocket quando invece Giuseppe Manfridi ha scritto un noir che mette in scena un’anima persa in un delirio di onnipotenza. Elisabetta è stata un’assassina seriale che per alcuni storici ha squartato e dissanguato dalle cento alle trecento fanciulle, seicentocinquanta secondo un suo diario. Non è un’anonima vampiretta da torre gotica magiara o transilvana che fa la civetta notturna con moine da femmina di morbosità cimiteriale, ma un personaggio di pazzia fredda realmente esistito che Manfridi usa per una perlustrazione di insondabili caverne della mente umana piene di scorpioni e salamandre, di larve e di serpi. Mostri psichici. Invece s’è avuta la Duse del bel Danubio noir. Si poteva fare di più, persino di meno.