“Il mio nome è Caino” di Claudio Fava, regia di Laura Giacobbe, con Ninni Bruschetta. Al Brancaccino di Roma

Il mio nome è Caino

Il monologo della calibro 38

In smoking, accompagnato da una pianista, in un paio di occasione canta anche, manca soltanto un buon bicchiere di whisky sul pianoforte: se ci si tappasse le orecchie per non ascoltare ciò che dice, Ninni Bruschetta in scena al Brancaccino di Roma sembrerebbe uno chanteur de charme da piano bar. Invece interpreta Il mio nome è Caino di Claudio Fava, monologo d’uno spietato killer di mafia che spara e spara e spara con la calibro 38 a tutti quelli che gli viene comandato di ammazzare, un fabbricante di cadaveri che alla fine dello spettacolo mette sullo smoking un impermeabile alla Bogey in Casablanca.
È una vecchia questione: evitare di rendere eroici e affascinanti i mafiosi, evitare il romanticismo del bandito che sovverte le regole di una società pavida, conformista e ingiusta alla quale il fuorilegge risponde, illecitamente ma comprensibilmente, con un’altra ingiustizia in un certo qual modo risarcitoria e comunque pregna di epico coraggio. Quando ne Il padrino di Francis Ford Coppola, Sonny Corleone viene ucciso a mitragliate mentre è fermo al casello autostradale, fa la figura di un eroe che cade in guerra. Tuttavia, ad ascoltare i racconti di qualche poliziotto che ha stanato e arrestato mafiosi nascosti nei bunker sotterranei, è il fetore ciò che più colpiva, la puzza vomitevole che emanava dal criminale e dal suo covo marcio (una cella per sfuggire alla cella), a tal punto che gli agenti esitavano a toccarlo perché con una mano tenevano l’arma e usavano l’altra per turarsi il naso. Nulla c’è di un’eccezionalità del male esaltata in certe fiction televisive. La retorica di una vita spericolata con molte macchie ma senza paura finisce con gli intestini rovesciati sull’asfalto di una periferia per colpa d’un picciotto ancora onanista a cui qualcuno ha dato una pistola. E la ridicola esaltazione di un coraggio inesistente, la schiena dritta del mafioso si disonora nella piagnucolosa richiesta al giudice di sorveglianza d’essere trasferito dal carcere all’ospedale con la scusa di sopravvenuta malattia, una dissenteria per esempio.
Accompagnato dal pianoforte di Cettina Donato che esegue musiche da lei stessa composte per lo spettacolo, Bruschetta si avvale di una voce calda e piena che modula assai bene e che arricchisce di sfumature e di toni; si avvantaggia di una presenza scenica forte che gli permette economia di movimenti e quindi sottigliezze gestuali, pause, allungamenti dei tempi. Diretto da Laura Giacobbe (ma in casi simili non si sa mai bene dove finisce la regia e comincia l’attore), l’interprete carica il personaggio d’una calma fredda, efficace per il disegno d’un carattere di mafioso che ha deciso di trovare nella spietatezza omicida, in una ragionieristica amministrazione e in una fiscale somministrazione della morte il senso del suo stare al mondo. Una mondanità che comprende anche la frequentazione della borghesia mafiosa siciliana, politici, avvocati, imprenditori e si potrebbe aggiungere magistrati corrotti, esponenti collusi dell’antimafia, ufficiali dei carabinieri e dei servizi dediti al concorso esterno. Qui lo smoking ci sta benissimo, spesso i delinquenti scimmiottano l’alta società e si può dire che oggi molti di loro ne facciano pienamente parte. Ecco, forse il testo di Claudio Fava (figlio di Giuseppe, giornalista assassinato dalla mafia a Catania nell’84) editato nel 1997 risente dei quasi venticinque anni trascorsi. Perché resta il racconto di una mafia siciliana, isolana, quando ormai è diventato chiaro che le regioni da demafiosizzare con urgenza sono la Lombardia, il Veneto, il Lazio pieno di camorra, l’Umbria gonfia di ‘ndrangheta.

Marcantonio Lucidi,
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