“Artemisia – ritratto di pittora” di Valeria Moretti, regia e interpretazione di Sandra Collodel. Al teatro Flaiano di Roma
Non fu gentile, fu Gentileschi
Un po’ come Ipazia d’Alessandria, Artemisia Gentileschi è di quelle figure storiche che ogni tanto vengono ricordate prima ancora che per la loro bravura, per il fatto che sapessero fare qualcosa in genere appannaggio dei maschi. Almeno questo è il sospetto: se nel caso di Ipazia la stupita esclamazione suona “ah, vedi, anche una donna sapeva filosofare”, per la Gentileschi diventa “ma guarda un po’ come dipingeva bene questa ragazza”.
La ragazza, nata a Roma nel 1593 e scomparsa nel 1652 circa a Napoli, fu artista dei migliori secenteschi. Dovette però attendere il 1916, anno di pubblicazione d’un articolo del grande critico d’arte Roberto Longhi per vedere riconosciuta la propria straordinaria maestria. Longhi la definì “l’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura” cosicché cadde anch’egli nel volgare pregiudizio antifemminile: di brave “pittore” negli anni di Artemisia ve ne furono varie altre, da Lavinia Fontana a Elisabetta Sirani, Sofonisba Anguissola, Fede Galizia.
Artemisia Gentileschi, oltre ad una magnifica caravaggesca, è stata nel Novecento un’icona del movimento femminista per via della denuncia per stupro da lei presentata contro Agostino Tassi, anch’egli pittore. Il processo terminò con la meritata condanna di Tassi ma Artemisia uscì dalla vicenda con lo stigma della puttana. In Artemisia – ritratto di pittora, testo di Valeria Moretti, l’interprete e regista dello spettacolo in scena al teatro Flaiano, Sandra Collodel, sta davanti a un’opera famosissima della Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne. La scena del quadro è di tale crudo realismo che addirittura Giuditta, con l’espressione impassibile e concentrata di chi è intento ad un lavoro ben fatto, infila lo spadone nella gola di Oloferne badando al contempo a stare un po’ discosta dal corpo della vittima di modo da non insozzarsi il bel vestito di seta gialla con gli schizzi di sangue. Il dipinto è stato da certuni visto in chiave femminista come una vendetta della donna per la violenza sessuale subita dal maschio. Decrittazione un po’ facile del quadro e della figura di Artemisia nella quale la Collodel chiaramente non vuole cadere. L’attrice ambisce piuttosto a ciò che il sottotitolo annuncia, un ritratto di pittora, e difatti sta nei primi momenti con le mani occupate a macinare i colori (con olio di noce o di seme di lino, benché il noce sia meglio, come suggeriva il Vasari). Con lei lavora un apprendista di nome Giustino (interpretato da Dario Guidi) e quindi la giornata si passa a bottega. Cioè: Artemisia è prima di tutto artista, dicono l’autrice e l’attrice, e poi quello che volete voi spettatori e critici e studiosi e femministe. Infatti il tema di cui si discorre in scena per la prima parte dello spettacolo è soprattutto la pittura e solo dopo Collodel racconta la biografia di Artemisia, in particolare lo stupro.
L’arte, in questo caso il teatro, è scelta, quindi non oppugnabile di per sé. Tutto sta nel capire se un’idea funzionerà o non funzionerà. La scrittura della Moretti alterna il romanesco a un italiano di ispirazione secentesca. È soluzione vezzosa, atta a spolverare sul testo un po’ di secentismo, come si sparge lo zucchero sulla torta al cioccolato. Tutti quei “lo quadro”, “lo pittore”, “la patientia” addobbano lo spettacolo di un suono innaturale ad imitazione del naturale. Viscosa al posto della seta.
È invece scelta della Collodel di dare ad Artemisia una grazia e una morbidezza che paiono appartenere più all’interprete che al personaggio. Ad osservare la sua prova – peraltro corretta, corretti i movimenti, le intonazioni – viene la domanda: nella decisione di fare lo spettacolo, l’attrice è stata affascinata più dalla figura di Artemisia Gentileschi o dal piacere di interpretare Artemisia Gentileschi? In scena s’offre molto dell’attrice e poco della pittora che non fu gentile, fu Gentileschi e la cui vita suggerisce che avesse una personalità fuori del comune, un carattere formidabile, che dovesse essere vento di maestrale, raffica di bora e certo non ponentino, non donnina quieta come una veduta di macchiaiolo di Castiglioncello ma gran donna potente come paesaggio impressionista.