“N.e.r.d.s.” testo e regia di Bruno Fornasari, con Tommaso Amadio, Riccardo Buffonini, Michele Radice, Umberto Terruso. Al Piccolo Eliseo di Roma
Lo strip dei quarantenni
Il programma di sala di N.e.r.d.s – sintomi, spettacolo in scena al Piccolo Eliseo e che parla di quarantenni, riporta la riflessione di uno scrittore britannico nato nel 1972, quindi quarantasettenne, Edward Docx: ”Se il problema per i post-modernisti è stato che i modernisti avevano detto loro che cosa fare, allora il problema dell’attuale generazione è esattamente il contrario: nessuno ci sta dicendo che cosa fare”. Questa è una vera iattura ma in casi di tale gravità ci si chiede se è preferibile non avere nessuno che indichi cosa fare o se conviene invece che qualcuno dica continuamente di fare le cose sbagliate. Ogni generazione ha i guai propri, che ovviamente non riesce mai a risolvere, e anche un peccato originale. Quello degli attuali quarantenni potrebbe essere stato commesso quasi vent’anni fa al G8 di Genova del 2001. È lecito pensare che se quella macelleria messicana fosse avvenuta negli anni Settanta, un’intera generazione sarebbe entrata in clandestinità e avrebbe riempito l’Italia di bombe. Invece il grido di guerra dei giovani di Genova fu il fruscio delle carte bollate stilate dai loro avvocati. Forse però rivolgersi ai magistrati per ottenere giustizia – la lenta e incerta giustizia italiana – piuttosto che alla mitraglietta Skorpion può essere indice di un certo grado di civiltà e di pacifismo.
Ora che sono arrivati alla mezz’età, ancor giovani e non più giovani, cosa sono diventati? Il N.e.r.d. del titolo è in medicina l’acronimo di Non erosive reflux disease – spiega ancora il programma di sala – ossia il reflusso non erosivo, insomma il bruciore di stomaco noioso ma non pericoloso. Questa è già un’indicazione. Una generazione rappresenta una generalizzazione però i quattro quarantenni messi in scena da Bruno Fornasari, autore e regista dello spettacolo, danno un’idea di cosa è successo. Sostanzialmente nulla. Una volta questo genere di cose le scriveva Harold Pinter, che apparteneva però alla leva di coloro che sul piano della drammaturgia si erano sentiti dire le cose sbagliate. O comunque datate. Giustamente Pinter non aveva prestato ascolto e s’era messo a scrivere a modo suo con il risultato di diventare un grande drammaturgo. Fornasari invece, facendo le debite proporzioni, fa finta di scrivere come se nessuno gli avesse detto niente, ossia come se non esistessero dei canoni di riferimento. Tuttavia a mano a mano che la commedia avanza, diventa chiaro che la struttura dello spettacolo ricalca la comic strip. Sono piccole storie che tutte hanno uno sfondo comune: i quattro personaggi sono fratelli venuti a festeggiare le nozze d’oro dei genitori. Durante questa giornata di festa ambientata nel parco di un agriturismo, i protagonisti incontrano, parlano, litigano, ricordano, progettano (molto poco) e non sperano nulla. Soprattutto provano a sopravvivere, specialmente dentro se stessi. Sono individui con i piedi fortemente poggiati sul dubbio, ma non il dubbio del pensatore che alla domanda sull’esistenza di dio potrebbe rispondere con una domanda sulla necessità della domanda, bensì quello di chi si chiede per quale motivo dio, gli uomini, il fato, il mondo, il cosmo non fanno qualcosa per lui. Hanno degli orizzonti ristretti, la famiglia, l’amore, il sesso, l’omosessualità dichiarata e il vizietto nascosto. Però non sono degli sciocchi e il comico della commedia sta qui, nella contraddizione fra la loro capacità di intendere e la loro inabilità a volere. E qui sta anche il dramma: vite anonime di persone intelligenti. Finite in un’ombra della Storia che non offre neanche il brivido esistenziale e culturale di un caffè letterario triestino, d’inverno, a sera, sotto la bora.
Ecco quindi i quarantenni cosa sono (o sarebbero): non gli esponenti della solita società liquida di Bauman, che ormai è un luogo comune in cui ritrovarsi quando non si hanno punti di riferimento, ma membri d’un mondo ad aria compressa in cui gli individui non hanno rivendicazioni chiare e riconoscibili, verrebbe da dire politiche, da portare avanti ma sono abitati da istanze generiche, scomposte, destrutturate. Preferirebbero esistenze di maggior soddisfazione, un ambiente più pulito, una mobilità più ecologica, una famiglia meno insopportabile, una psiche meno sofferente. Vaghezza di desideri sotto pressione che sfiatano nell’ambiente umano producendo un sibilo udibile ma inutile e inoffensivo.
Impegnati in doppi ruoli, gli attori – Tommaso Amadio, Riccardo Buffonini, Michele Radice e Umberto Terruso – oltre a interpretare i quattro fratelli, danno vita a una serie di altri personaggi, amanti, mogli, mariti, identificati da segni semplici, una borsetta o una mano steccata e appesa al collo. Il loro è un naturalismo spinto fino al grottesco, costruito su tempi rapidi, battute veloci e improvvise pause lunghe, secondo un realismo più reale del reale quindi finto. È una chiara indicazione di regia che cerca una contraddizione assai teatrale fra una formale velocità degli accadimenti scenici e una sostanziale immobilità dei personaggi e delle loro vicende. Succedono un po’ di cose ma non si muove niente. Gli artisti in scena sono tutti bravi al gioco paradossale del naturalismo eccessivo ma particolarmente abile è Riccardo Buffonini che sviluppa una linea di scetticismo sarcastico applicato persino al suo personaggio, il quale dal canto suo non crede a nulla, neanche all’attore che lo interpreta. In genere, il rapporto fra chi recita e chi è recitato si può definire come una società per azione che si rinnova ogni sera. Ma ormai siamo tutti entrati in una società a responsabilità limitata, non più liquida, bensì in liquidazione.