“Autobiografia erotica” di Domenico Starnone, regia di Andrea De Rosa, con Vanessa Scalera e Pier Giorgio Bellocchio. Al Piccolo Eliseo di Roma
Un maschio e una donna
Si tratta di un acquario, dentro ci sono due pesciolini, una femmina e un maschio. Non si può dire che il loro sia un corteggiamento, né un duello d’amore, una sfida, una lotta, piuttosto è una rinuncia. A capirsi, incontrarsi, amarsi. Autobiografia erotica è il dramma che Domenico Starnone ha tratto da un suo romanzo del 2011 quasi omonimo (Autobiografia erotica di Aristide Gambía) e che Vanessa Scalera e Piergiorgio Bellocchio interpretano al Piccolo Eliseo di Roma sotto la direzione di Andrea De Rosa.
La trama è la seguente: un giorno di vent’anni fa Mariella e Aristide si sono conosciuti e hanno avuto un brevissimo rapporto sessuale, un amplesso di pochi minuti in piedi. Poi non si sono più rivisti. Ora lei gli ha scritto e gli ha chiesto un appuntamento. Aristide quasi non la ricordava. Mariella è una donna appetibile, lui ha fatto carriera, hanno circa quarant’anni, l’idea di un incontro in effetti è un po’ strana, però i maschi hanno sovente la curiosità di vedere cosa sono diventate le loro vecchie prede. Sicché Aristide va all’incontro con in testa una speranza banale: magari anche questa volta come quella volta di pazienza non ce ne vorrà molta. Mariella la mette su un piano assai volgare, usa un linguaggio osceno e aggressivo però bisogna vedere dove intende andare a parare, cosa vuole e cosa se ne può ottenere. La relazione è inizialmente basata sul solito vecchio schema per il quale è la donna a controllare la situazione perché è lui a domandare e lei a concedersi se le va. Ma il dialogo evolve ed assume il valore di un’indagine dell’autore su alcuni aspetti della relazione fra l’uomo e la donna: il dono del corpo femminile; la responsabilità e le conseguenze materiali, morali e sentimentali, dell’atto amoroso; il ricordo dell’amante, l’amante anche di un’ora, e il significato dell’oblio come cancellazione di un’anima, una sorta di omicidio spirituale che Starnone attribuisce all’indole maschile.
Con un po’ di abitudine ai procedimenti drammaturgici, è facile intuire dal primo quarto d’ora di spettacolo il finale, quindi non sorprendente come vorrebbe essere. Una buona drammaturgia cerca di evitare l’ovvio come la peste ma l’ovvio come la peste sembra spesso inevitabile, una piaga divina propagata dall’infezione del melodrammatico. Tuttavia la regia di De Rosa possiede l’abilità di indurre lo spettatore a concentrare la sua attenzione su quanto di volta in volta sta succedendo fra i due e non su quanto avverrà. Sicché ci si dimentica dello scontato epilogo e la rappresentazione carica il dialogo di suspense. La regia non perde tempo e mira a non allentare mai il ritmo dell’azione. Dà alla situazione una tensione erotica che fornisce ad Aristide, il quale rischia molto in questo incontro, una ragione comprensibile per non andare via. Vanessa Scalera recita anche con le gambe, le esibisce, le accavalla, le allunga, le usa come richiamo sessuale assieme a una voce bella e sensuale. Il ruolo di Aristide affidato a Pier Giorgio Bellocchio è meno interessante, scritto con meno intensità ed offre opportunità minori all’interprete. L’impressione è che l’autore non abbia molta stima del personaggio, maschio mediocre, dai moti ordinari di piccolo predatore superato dall’intelligenza e dalla sofferenza femminili. Vi è uno squilibrio nella struttura del dramma: le battute della donna sono assai più numerose di quelle dell’uomo e più forti, più profonde e complesse. E quando un personaggio si sente trattato male, si vendica spingendo l’autore a mettergli in bocca un po’ di banalità. Aristide rappresenta in effetti il maschio stupido, ossia un luogo comune che a teatro è bene diventi grottesco, o comunque uno studio di caratteri. Invece il personaggio evolve assai poco, piuttosto è trascinato dalla situazione fino a un monologo tutto suo che è teatralmente risarcitorio e che Bellocchio recita a dovere ma che non aggiunge nulla di nuovo a ciò che già s’era capito della sua psicologia.
Il finale purtroppo dà ragione all’intuizione dello spettatore, il quale invece va a teatro per avere torto ed essere sempre gabbato, e su questo De Rosa e gli attori nulla possono come anche sulle ultime due battute, retoriche assai, con le quali i protagonisti esprimono la loro paura, ma non si capisce perché, di cosa, essendo il futuro già avvenuto e anzi vecchio di vent’anni.