“La governante” di Vitaliano Brancati, regia di Guglielmo Ferro, con Ornella Muti ed Enrico Guarneri. Al Quirino di Roma
Un divano vuoto
La cosa migliore di questo allestimento de La governante di Vitaliano Brancati in scena al Quirino, regia di Guglielmo Ferro, sarebbe il divano Chesterfield che campeggia in mezzo alla scena se non fosse che due attori, degli otto in compagnia, meritano gli applausi finali: Enrico Guarneri nella parte di Leopoldo Platania e Nadia De Luca che fa la prima cameriera, Iana.
Per quanto riguarda Ornella Muti, protagonista nel ruolo del titolo, il problema non è nel suo modo di recitare. La questione sta nel semplice fatto che non dà idea di sapere cos’è un’interpretazione teatrale, di come si sta e ci si muove su un palcoscenico. A un certo momento addirittura intruppa contro un collega nel tentativo di passare fra lui e il divano: incidente se accaduto una sola sera, sciatteria invece se accade a ogni replica e non di sola responsabilità dell’attrice probabilmente ma attribuibile anche al regista o allo scenografo o a tutt’e due.
Qualsiasi artista di teatro ha diritto a un minimo di considerazione per il semplice fatto di andare in scena, ma dispiace vedere la Muti, che comunque è iscritta nella storia del cinema italiano, dimostrare l’esistenza del grado zero della recitazione: non fa sentire una variazione nella voce e qualsiasi cosa succeda, qualunque battuta debba pronunciare, tutto è sullo stesso tono; qualunque cosa debba fare e quale che sia l’azione, si muove rigida e pesante come se trasportasse un mobile sulle spalle. Non ha tempi teatrali, ha l’espressività di una statua di Marie Tussaud, quando non è in battuta sta fissa in mezzo al palcoscenico da parere un semaforo spento. Non è neanche involontariamente comica come succede a certi attori poco pratici dell’arte. Vedere questa star del nostro cinema che sta in scena come una farfallina spillata in una bacheca è desolante.
Assieme a lei recita anche sua figlia Naike Rivelli, che fa la seconda cameriera e deve dire esattamente due battute in tutto lo spettacolo. Il dramma di Brancati, datato nei dialoghi, nelle situazioni, nel tipo di borghesia che mette in scena, ruota attorno all’amore saffico fra la governante e la seconda cameriera. Il tema di fondo del testo non è l’omosesssualità ma l’ipocrisia e se la regia avesse diretto gli attori in modo da rendere ben chiaro questo aspetto, che è universale, il dramma sarebbe parso meno invecchiato. Comunque, fare recitare due lesbiche a Ornella Muti e a Naike Rivelli, ossia alla madre e alla figlia, è una trovata di gusto a dir poco dubbio. Non ci sono scene scabrose fra le due donne, è l’idea stessa a stridere come una lima sui denti. Gli artisti hanno diritto di recitare ciò che vogliono, quindi è stata una fortuna non avere mai visto Vittorio Gassman e suo figlio Alessandro, o Ciccio e Giampiero Ingrassia interpretare due amanti omosessuali. Non è per formalismo, moralismo o puritanesimo che si evita di grattarsi le ascelle a tavola in casa d’altri (e anche nella propria) o di espellere a bocca aperta il gas dello champagne. È per buona grazia.
Quanto alla prova degli altri attori – Rosario Minardi, Rosario Marco Amato, Caterina Milicchio, Turi Giordano – si sta nell’anonimato d’un gruppo di turisti su un autobus. La direzione di Ferro non li aiuta: senza un’idea di messinscena da rilevare, lo spettacolo sembra realizzato più per dovere che per piacere e i personaggi paiono capitati lì per caso, in cerca di regista. E quel divano Chesterfield anche quando ci sta seduto qualcuno, a parte Guarneri, pare sempre tristemente vuoto.