“Hotel Poe” scritto da Riccardo Bàrbera, da lui interpretato assieme ad Antonio Conte. Regia di Claudio Boccaccini. Al Belli di Roma
Un gatto non fa un incubo
Ci sono degli spettacoli che sembrano pensati più per chi li mette in scena che per chi li guarda. Non significa che sono brutti, significa che non si giustificano. Hotel Poe è un oggetto drammaturgico un po’ bizzarro scritto da Riccardo Bàrbera e da lui interpretato al Belli di Roma assieme ad Antonio Conte. La regia di Claudio Boccaccini è un esempio di come si possa distrarre gli spettatori e portare avanti lo spettacolo tenendo sempre in sospeso la risposta alla domanda su dove sta andando il dramma
È tutto fatto piuttosto bene, Barbèra è un attore molto piacevole da osservare in scena, Antonio Conte è un buon collega che ha la sola debolezza di attardarsi troppo in certi suoi preziosismi non particolarmente efficaci. I movimenti che Boccaccini indica agli interpreti sono assai funzionali alla situazione drammaturgica e al tipo di palcoscenico del Belli. Poche cose in scena – un tavolo, una sedia, delle poltrone, una lampada, un telefono – ma tutte giuste e necessarie. Spettacolo di gente che il teatro lo fa con molta naturalezza e con una mano sicura, sicché non si può neanche uscire alla fine della rappresentazione pregustando un po’ di perfidia nella chiacchiera sullo spettacolo: hai visto quando parla al telefono come si mangia la battuta? Hai sentito come suonava falso? Eh, ma recitare una telefonata è difficile, meglio interpretare un telefono che una telefonata. Artigianato abile invece, tempi e ritmi a posto, dialogo sostenuto. I due in scena stanno bene in parte e non mollano mai i personaggi, anzi se li costruiscono con la velocità di chi non ha fretta. Il problema è che non si capisce cosa il testo vuole dire. Parla di Edgar Allan Poe come suggerisce il titolo? Della pazzia? Del problema dell’identità? Degli incubi gotici? Di un racconto dello scrittore americano intitolato William Wilson citato durante lo spettacolo? Di tutto ciò un po’, probabilmente.
Allora, la storia è la seguente: uno psichiatra, William, scende nell’albergo romano di Germano. Questo Germano ha problemi di identità, è ossessionato da un gatto e perseguitato dalle telefonate di un soggetto misterioso che sostiene di essere suo fratello. Per certi aspetti, si riprende ma in maniera molto sfocata, il William Wilson. Lo psichiatra e l’albergatore incominciano a fare delle lunghe chiacchierate in cui il secondo rivela le scomodità della sua mente, le bizzarrie psichiche, le manie, i vizi. Anche il medico si apre e appare chiaro che vox populi vox dei, cioè che per fare lo psichiatra bisogna avere una qualche debolezza di nervi, come si sarebbe detto ai tempi di Poe. Si ipotizza anche che lo scrittore americano, contrariamente alla sua biografia come la conosciamo, sia stato a Roma e quindi qualcosa con questo albergo potrebbe avere avuto a che fare. Cosa, non si sa. E insomma un po’ col piede destro un po’ col sinistro, questo facsimile di racconto noir, uno psicogotico alla romana, va verso l’epilogo. Da non rivelare, un po’ perché non è educato spiattellare un finale, un po’ perché se fosse un romanzo giallo, l’assassino arriverebbe dopo l’ultima pagina.