“La commedia di Gaetanaccio” di Luigi Magni, regia di Giancarlo Fares, con Giorgio Tirabassi e Carlotta Proietti. Al teatro Eliseo di Roma
Roma fa la stupida stasera e dice de no
Si chiamava Gaetanaccio, non Gaetanino, Gaetanuccio, Gaetanello. “Accio” è un suffisso con valore peggiorativo: pasticciaccio (de via Merulana), fattaccio (der vicolo der Moro), donnaccia (della Suburra). È esistito, vissuto fra il 1782 e il 1832, a essere precisi in romanesco era soprannominato Ghetanaccio, al secolo Gaetano Santangelo, faceva il burattinaio ambulante, mica come quelli degli anni Sessanta al Pincio che erano stanziali e si guardavano bene dal girare per rioni, toccava agli spettatori salire fin lassù da San Sebastianello o dalle rampe di piazza del Popolo. Santangelo si caricava il castello, che si chiama anche baracca, del suo teatro di burattini e se ne andava torno torno nella Roma papalina del primo Ottocento a cercare di scansare la fame col mestiere suo. Santangelo era un uomo di battuta salace che nei suoi spettacoli sfotteva nobili e prelati, i potenti, di conseguenza ogni tanto finiva in galera per quel suo spirito plebeo e scurrile. Un Gaetanaccio. Il suo personaggio preferito era Rugantino, dal romanesco “rugà ”, “protestare minacciando con arroganza”. Per l’Anno Santo del 1825, un pontefice di provincia anconetana, Annibale Francesco Clemente Melchiorre Girolamo Nicola della Genga, Papa Leone XII, chiuse tutti i teatri e proibì i pubblici spettacoli. Succede, i teatranti devono sempre stare in guardia, ché il potere ogni tanto manda le guardie. Ghetanaccio, che già non riusciva a mettere il pranzo con la cena, cadde in miseria nera.
Incomincia con un editto che sopprime “tutte quelle presunte attività culturali le quali che, quando va bene, non servono a gnente” La commedia di Gaetanaccio scritta da Gigi Magni che andò in scena quarant’anni fa al Brancaccio con Gigi Proietti nel ruolo del titolo e Luisa De Santis a interpretare la protagonista femminile, Nina. Per la riedizione di questa splendida commedia con musiche, sono in scena in questi giorni all’Eliseo Giorgio Tirabassi e Carlotta Proietti diretti da Giancarlo Fares. L’aria che tira nello spettacolo si capisce abbastanza rapidamente, al duetto d’amore del primo tempo fra Gaetanaccio e Nina che chiarisce la relazione fra i due personaggi. In quel punto si deve sentire il fuoco dei sentimenti e la loro delicatezza, il trasporto e la dolcezza, la passione irresistibile eppure raffrenata. Fra loro deve correre l’amour fou altrimenti tutto il gioco successivo di ripicche e musonerie e vendette e colpi di spillo viene fuori privo di tensione. Necessita far capire agli spettatori che quei due non si possono lasciare, che il loro cielo è eterno, per riuscire poi a giustificare un epilogo addirittura surreale, come solo il grande amore sa essere, quando Nina sta morendo per la coltellata ricevuta dal cardinale depravato e Gaetanaccio ha il coraggio di prendere a bastonate persino la Morte. E a ogni tortorata, come si dice nell’Urbe, del burattinaio alla nera mietitrice, Nina riprende vita e guarisce della fatale ferita. L’amore vince tutto, anche la fame, anche la morte. Purtroppo i due interpreti, un po’ meno Carlotta Proietti, tengono i rispettivi personaggi a freno, chissà perché, non li lasciano al travolgimento delle passioni ed invece amano freddo.
La prima scena del secondo tempo vive sull’idea di un sofisticato meccanismo comico di teatro nel teatro e va montata in quel senso: Gaetanaccio ha da dare spettacolo per il Papa stesso in vena di divertimento. Il gioco sta nel fatto che le trovate del burattinaio devono essere comiche per il pubblico ma non per il Pontefice, si deve ridere molto in platea anche perché il plebeo non riesce a fare ridere il potente, il padrone. Lo spettacolo offre in questo punto possibilità uniche a un interprete che sappia sfruttarle. Tirabassi però fin dall’inizio ha costruito il personaggio non come un Gaetanaccio, piuttosto come un Gaetanino, un Gaetanello. Quindi nelle scene forti non regge, è poco credibile.
L’intero allestimento è un’occasione mancata e, siccome è chiaro che il prim’attore possiede i numeri per fare assai di più, ci si chiede dove le cose non hanno funzionato. Dopo il passaggio di teatro nel teatro, la commedia continua con un dialogo fra il burattinaio e il Papa. È il momento – chiave del confronto fra il Potere e il Popolo quindi non devono esserci elementi di distrazione dell’attenzione del pubblico. Cosa ci fa proprio in mezzo a Gaetanaccio e al Pontefice il personaggio minore della guardia svizzera che è fuori battuta e fuori dell’azione ma che trovandosi in quel punto preciso invece che in qualsiasi altro posto sul palcoscenico interrompe la relazione spaziale fra i due protagonisti della scena? Magari è un caso, l’errore di una sera, può anche essere spiegato logicamente: la guardia sta lì a protezione del Papa e contribuisce a dare l’impressione che stavolta Gaetanaccio è pericoloso. Però non funziona. Si tratta di un dettaglio ma tutta la regia sembra appesantita da dettagli simili, da squilibri, da mancate soluzioni, da scelte imprecise riguardo la prossemica fra gli attori, ossia le distanze fra loro e le posizioni che occupano nello spazio. Tutto ciò vulnera la compattezza dell’allestimento e la resa degli interpreti, i quali a volte paiono quasi in imbarazzo, come se camminassero con gli anfibi ai piedi in un salotto, che è questa commedia solo apparentemente romanaccia ed invece sottile nel trattare i sentimenti d’amore, le rivendicazioni di giustizia e libertà, i patimenti del pezzente che da giorni non riesce a mangiare. La commedia di Magni richiama molti aggettivi possibili, cinica, ironica, poetica, amara, sarcastica; si occupa di sostantivi seri, l’amore, la povertà, la paura, la sopraffazione. Vi circola lo spirito quirite, indolente, giocoso, spavaldo; il protagonista è irriverente, gradasso, spaccone, integerrimo uomo d’onore e di principi; Nina è dolce, maliziosa, intrigante e pura, nobile d’animo. Su tutto, il senso tipico romano della vita e della morte, del tutto passa e niente resta, della storia che incenerisce ogni gloria e vanità. E davanti a tanta ricchezza, lo spettacolo ha un’arietta smunta, svigorita, esangue. Anche le scenografie (di Fabiana Di Marco) appaiono dimesse, verrebbe da dire visualmente pudibonde e illuminate giusto perché un po’ di luce s’ha da fare.
Tirabassi sa cantare, sa recitare, sa stare in scena, conosce il mestiere, però il suo mezzo Gaetanaccio ha la vitalità e l’estro di certi vecchi pugili romani che tanti anni fa frequentavano l’Audace, la palestra del rione Monti, non lontano dall’Eliseo, e fra un ricordo e l’altro di antichi combattimenti, tiravano un sinistro al sacco guardando un poster di Carlos Monzon. Meglio fa Carlotta Proietti, la quale pure sa cantare assai bene e recitare, ma non per questo si limita e anzi, cerca di dare alla sua Nina un po’ di brio, di arguzia, di sex-appeal e insomma quanto serve per giustificare il fatto di piacere al suo ganzo. Il contesto non aiuta né lei né i suoi compagni di scena, fra gli altri Elisabetta De Vito che fa la Morte e Carlo Ragone nel ruolo di Fiorillo, figlio di Pulcinella, quindi uno zanni di Commedia dell’Arte (e anche qui quante occasioni mancate di arricchire lo spettacolo, di dargli movimento e brillantezza). Le musiche e le canzoni (eseguite in scena) sono le stesse di quarant’anni fa ovviamente, firmate da Gigi Proietti, Piero Pintucci e Gigi Magni. Applausi alla fine dello spettacolo, tre chiamate alla pomeridiana del mercoledì. S’esce che è quasi ora di cena. Alla Madonna dei Monti ci stava un’osteria ai tempi del Gaetanaccio di Proietti che faceva il migliore abbacchio di Roma e serviva vino di Frascati. Ora ci sono locali per hipster e un negozio di scarpe dove comprarne un paio per fuggire dalla nostalgia.