“Questi fantasmi!” di Eduardo De Filippo, regia di Marco Tullio Giordana, con Gianfelice Imparato, Carolina Rosi, Nicola Di Pinto. Al teatro Argentina di Roma
Eduardo, anche senza i De Filippo
Questa è la prima volta che si rappresenta una commedia di Eduardo quando sulle scene italiane non c’è più un De Filippo, dopo la scomparsa di Luca nel 2015 e di Luigi meno di un anno fa. Ora la grande famiglia della scena italiana novecentesca è per sempre consegnata alla storia del teatro nazionale e, se da una parte la constatazione provoca una nostalgia amara, dall’altra però vedere Questi fantasmi! (all’Argentina di Roma con la regia di Marco Tullio Giordana) è come assistere a un Goldoni: si sta nell’immortalità.
Questa è una delle più belle commedie di Eduardo, tre atti scritti nel 1945, seconda della Cantata dei giorni dispari dopo Napoli milionaria. Va osservato bene Gianfelice Imparato, protagonista nel ruolo di Pasquale Lojacono, quando nella scena d’apertura del secondo atto fa al balcone uno dei monologhi eduardiani più famosi, quello del caffè. Ecco, lì sta la classicità italiana del Novecento, l’arte nostra drammaturgica e interpretativa, il modo nostro di fare teatro, l’attore alla ricerca dell’uomo oltre il ponte del personaggio. Per il miglior teatro italiano i personaggi sono ponti. Sempre nel secondo atto, la scena dello scontro fra moglie e marito, uomo e donna – un momento classico della scena eduardiana – fra Pasquale e Maria non porta lo spettatore nella quotidianità della situazione coniugale, come si potrebbe pensare, questa è schiuma, ma nelle rispettive “solitarietà”, ché la solitudine è lo star solo da soli, la “solitarietà” lo star solo in mezzo agli altri. Questa è condizione umana. Sicché una storia che pare di corna e nulla più, racconta l’eterna tragedia dell’esistere: la vita è breve ma le giornate sono lunghe. Si sopravvive unicamente nella contraddizione, nel mascheramento, nella costruzione illusoria. Il surreale fantasma, il monaciello, che infesta a casa in cui sono venuti ad abitare i Lojacono, è lo spiritello interiore che porta via i desideri perduti, le promesse svuotate, le gonfie disperazioni. La Napoli del dopoguerra, miserabile e opulenta, città dolorosa e misericordiosa ieri come oggi, conscia che ‘a vita è n’ affacciata ‘e fenesta, uno sporgersi dal balcone, sta tutta nella scenografia di Gianni Carluccio, maestoso e quasi vuoto appartamento affittato a pigione gratuita perché abitato da un soprannaturale steso come una sindone sul naturale che lo impregna.
Il resto è teatro generato dalla regia di Marco Tullio Giordana come se fosse una cosa facile. Ed invece è semplice, semplice come una commedia di Eduardo che nasconde la complessità dei suoi meccanismi drammaturgici e teatrali ma la manifesta nella visione del mondo e degli esseri umani. Gianfelice Imparato e Nicola Di Pinto (Raffaele, il portiere), nel primo atto bella coppia comico-spalla, esprimono ciascuno al modo del personaggio la penuria partenopea: Lojacono come privazione di ciò che poteva essere, Raffaele come privazione di ciò che non è mai stato. Carolina Rosi, che oggi dirige la compagnia di Luca De Filippo, fa Maria con discrezione, quasi con la ritrosia di chi sa che non c’è nulla da fare e che neanche il munifico amante Alfredo Marigliano, affidato a Massimo De Matteo, potrà cambiare le cose, se non per un istante, dentro una corta parentesi della vita.
In scena con loro Giovanni Allocca, Paola Fulciniti, Gianni Cannavacciuolo, oltre ai giovani Federica Altamura, Andrea Cioffi e Viola Forestiero, tre attori di nuova generazione da tirare su, come deve fare una compagnia all’italiana e come sempre hanno fatto i De Filippo.