“Treni ed eroi” di e con Francesco Andolfi diretto da Gabriele Linari. Al teatro Lo spazio di Roma
L’innaturalismo del naturalismo
Il mondo è pieno di storie familiari, anzi ogni famiglia ha le sue, spesso avvincenti, romanzesche. Non c’è casa in cui non si racconti dei nonni fascisti, degli zii antifascisti (questi in Italia assai rari), del suocero partigiano che passò le linee nemiche nascosto in un carro sotto il fieno e del padre della nuora che tornò a casa dalla Russia a piedi e con una bicicletta rubata a un Rottenführer, un caporalmaggiore delle SS. Quindi quando si narrano le avventure del proprio nonno aviatore durante la seconda guerra mondiale – come fa il giovane Francesco Andolfi in scena al teatro Lo Spazio di Roma con il monologo da lui stesso scritto e intitolato Treni ed eroi – bisogna essere sicuri che il racconto sia effettivamente unico oppure abbia un valore esemplare, o sia stilisticamente originale. Altrimenti ci sarà sempre qualcuno in sala che avrà una storia migliore da raccontare, d’un parente napoletano per esempio che assieme ai suoi compari riuscì a rubare e smontare in due ore un carrarmato americano.
Poi c’è la questione del monologo: in giro se ne trovano tanti, troppi, è tutto un chiacchierare in scena per conto proprio d’ogni sorta di faccende private o pubbliche, biografiche o autobiografiche, vere o false. Trovato un soggetto, fatto un monologo. Eppure si tratta della sfida più difficile in assoluto per un attore ma siccome è produttivamente poco impegnativo, inoltre gratificante per l’interprete e illusoriamente facile – quanti sono convinti di avere le capacità e la tecnica per andare sulla ribalta da soli e uscirne vincitori – allora ci si precipita allegramente nel burrone come Willy coyote che insegue il Beep Beep della gloria teatrale.
Il testo che Andolfi, diretto da Gabriele Linari, ha scritto per sé racconta del nonno aviatore napoletano e delle sue avventure dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, con tribolazioni, pericoli, fughe, che sono vicissitudini consuete per quei tempi. L’attore recita all’americana, sembra essere stato letteralmente colato come cera molle nel cucchiaio del naturalismo. Ora, questo benedetto naturalismo offerto con tanta convinzione al pubblico è talmente spinto da rivelarsi innaturale fino all’artificio. Nella realtà nessuno si comporta con tanto realismo, ché sarebbe scambiato per un commediante con tutto quell’agitar di corpo, di braccia e mani e sedersi e alzarsi e andar di qua e di là a simulare un soggetto ingorgato nel gorgo dell’esistenza. L’imitazione della vita è un falso, mentre la scena è il regno del finto. A New York e dintorni costruiscono attori naturalistici come fabbricano le boatte (per dirla alla napoletana) di zuppa Campbell’s, standardizzati per la colossale macchina produttiva di film e teleserie, che è assieme alla produzione discografica, il grande dispositivo del colonialismo culturale d’oltreoceano. Allora il punto non è se il giovane Andolfi abbia o no talento, il punto è se abbracciare o meno l’ideologia dominante o piuttosto cercare una propria strada artistica, originale, che sfrutti le tecniche dello strasberghismo McDonald’s come strumenti e non estetiche. Perché tutto sommato, in scena, un attore deve solo recitare, cosa di per sé sufficientemente difficile da non necessitare di ulteriori complicazioni.
L’aneddotica racconta di quando Dustin Hoffman girava Il maratoneta e faceva ogni mattina vari chilometri di footing per calarsi nella parte. L’americano si stupiva dell’olimpica calma dell’inglese Laurence Olivier che non si preparava, non si concentrava, non si abbandonava a esercizi di respirazione, né faceva la meditazione trascendentale o accendeva candele aromatiche tibetane nella sua roulotte. E gli domandò: “Maestro, ma come fate?” E lui rispose: “Me? I play”.