“Zozòs” di Giuseppe Manfridi, regia di Claudio Boccaccini, con Siddhartha Prestinari, Riccardo Bàrbera e Paolo Roca Rey. Al teatro Belli di Roma.

Zozòs

Pene d’amor perduto

Zozòs di Giuseppe Manfridi, in scena al Belli di Roma, è una gran bella commedia che debuttò in “prima” assoluta vent’anni fa, ebbe in seguito molto successo anche all’estero, merita di essere ripresa e di entrare stabilmente nel repertorio drammaturgico nazionale, cioè di essere riproposta al pubblico periodicamente come si fa per un classico. Siccome si narra una faccenda abbastanza scabrosa – un giovanotto e una piacente signora che rimangono bloccati in un atto di sodomia e non riescono più a disgiungersi – Zozòs è anche la prova di quanta libertà circoli nel teatro, visto che la settimana scorsa a mezzanotte la Rai ha mandato in onda Ultimo tango a Parigi ancora censurato e tagliato, a cinquant’anni di distanza, della famosa e piuttosto innocua scena del burro. Con tutti i danni che provoca, è comunque auspicabile che il potere permanga nel suo attuale stato di analfabetismo indecente in modo che non si interessi, al contrario dei secoli passati, di quanto gli artisti di teatro fanno e dicono in scena.
La pièce è una libera reinvenzione dell‘Edipo re e con la tragedia di Sofocle ha in comune alcune caratteristiche di cui solo due possono essere rivelate se si vuole conservare il segreto del finale: i fatti sono avvenuti prima dell’inizio del dramma; in scena si svolge un’inchiesta che lentamente e metodicamente svela questi fatti. Ma l’originalità e la modernità di Manfridi, ciò che denota una mano drammaturgica felicissima, sta nella sua capacità di costruire il dialogo fra tragedia e commedia: si scoprono piano piano cose gravissime e scandalose con un umorismo e un’eleganza di tale raffinatezza da trasformare una situazione grottesca e invereconda in un discorso sulla pesante leggerezza del destino e del caso. E il destino, come il caso, è un elemento centrale del teatro antico. Ma non si può dire di più, altrimenti si farebbe torto al futuro spettatore, ed è una frustrazione perché questo è uno spettacolo che induce a conversarne all’uscita dal teatro con la stessa finezza e sapienza che lo caratterizza, non fosse che per carpire qualcosa dello stato di grazia di Manfridi.
Difficile la parte del ragazzo che sta anche fisicamente sempre in secondo piano ma deve dire alcune battute fondamentali in mezzo ad altre di servizio. Paolo Roca Rey, che è all’inizio della carriera, non sbaglia e sembra, almeno in questo caso, un tipo di attore che ha un bel controllo del personaggio: ne è distaccato e lo tratta con ironia ma non lo nega, non vi si sovrappone e lo conduce a un finale imprevedibile con naturalezza e semplicità. Siddhartha Prestinari è la signora che ha concupito il giovanotto e deve essere matura e sensuale, cioè credibile. Ha inoltre da risolvere una contraddizione comica che l’autore ha infilato a bella posta nel personaggio, il quale è assurdamente bacchettone, un baciasanti che si ritrova, di propria volontà per giunta, in una situazione a dir poco peccaminosa. E l’attrice riesce ad essere zolfo nell’acquasantiera con notevoli effetti comici. A Riccardo Bàrbera il ruolo del ginecologo che è anche padre del ragazzo e dovrebbe tirare fuori la coppia dai guai. È l’unico che può stare in piedi e muoversi in scena quindi, oltre a svolgere l’inchiesta attraverso il dialogo con la donna, ha il compito teatralmente fondamentale di assicurare azione e movimento fisico allo spettacolo. Bàrbera aveva lo stesso ruolo nell’edizione di vent’anni fa, bravo all’epoca, molto bravo oggi, stralunato, stravagante, goliardico e mai volgare.
Anche la regia è la stessa del ’97, di Claudio Boccaccini che, se la memoria non inganna, mantiene lo stesso stile e gli stessi ritmi, studiati oculatamente per tenere il filo dello spettacolo ben teso. Qui la tensione non deve mai scendere ed invece alzarsi progressivamente, senza pietà per i personaggi e gli attori. A proposito, zozòs in francese è uno dei nomignoli che indicano il pene. È proprio il caso di dirlo: pene d’amor perduto.

Marcantonio Lucidi,
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