“Quasi Grazia” di Marcello Fois, regia di Veronica Cruciani, interpretazione di Michela Murgia. Al teatro India di Roma
La scrittrice che uscì dal grande mondo antico
Cosima, quasi Grazia è il titolo con cui fu pubblicato postumo sui numeri di settembre e ottobre 1936 della Nuova Antologia il romanzo autobiografico incompiuto di Grazia Deledda. E Quasi Grazia è il titolo dello spettacolo scritto da Marcello Fois e diretto da Veronica Cruciani che s’occupa della grande scrittrice sarda. Allestimento andato in scena al teatro India di Roma per pochi giorni, appena sei. Per motivi vari e diversi, tutti complicati e negativi, appena un allestimento arriva in scena, si ha da precipitarsi a vederlo perché subito viene sottratto al pubblico e fatto scappare come un ladro nella notte, come un lebbroso vergognoso, come una battona sfacciata. Stortura italiana. Il sospetto è che per certuni la prosa sia un’attività indecorosa e non sta bene lasciarla in mostra per troppo tempo, onde evitare l’arrivo della buoncostume. Si consumi pure nella nostra società bacchettona e oscena (o-scena, avrebbe detto Carmelo Bene) il teatro e la pornografia – entrambi mali inestirpabili e antichissimi – ma alla velocità di un video hard su Internet.
Quasi Grazia e la Deledda meritano di più di un consumo da tramezzino allo snack bar. Ci sono tre luoghi centrali nello spettacolo: la Sardegna, al momento in cui la scrittrice ventinovenne abbandona la casa familiare e si trasferisce sul continente assieme al marito Palmiro Madesani; Stoccolma, quando la scrittrice ottiene il Nobel per la letteratura nel 1927; e Roma, nel giorno della scoperta d’un cancro che la ucciderà nel ’36. La drammaturgia come sintesi dunque, tre situazioni per raccontare una vita, un’anima, e cambi di scena usati anch’essi narrativamente per raccontare un’avventura della letteratura e dell’interiorità. L’apparizione di Su Componidori, la maschera androgina della giostra della Sartiglia, è il segno di una “sardinità” immarcescibile della Deledda. Tuttavia, la scelta che caratterizza lo spettacolo è di fare interpretare la scrittrice sarda a un’altra scrittrice sarda, Michela Murgia per la prima volta in scena. Ci si aspetta da lei non tanto una prova recitativa quanto una manifestazione simbolica di Grazia, una personificazione della letteratura e una testimonianza della difficoltà d’essere al contempo donna e scrittrice. Eppure Murgia riesce nella sua semplicità, nel suo modo di sottrarsi quasi all’esposizione di sé, a essere un’interprete e a portare in scena un’idea teatrale della Deledda, al punto che, seppur circondata da attori professionisti, è lei ad imporsi con viva presenza scenica. Nel dialogo con il giornalista che la intervista in occasione del Nobel, Murgia eleva il personaggio a una statura intellettuale e umana irraggiungibile al suo interlocutore, il quale mostra i difetti tipici della propria categoria professionale, una superficialità compiaciuta e presuntuosa. Come avvenne settant’anni dopo per il Nobel a Dario Fo (il quale almeno aveva il vantaggio di essere un maschio), la conquista del prestigioso premio svedese da parte della Deledda fu accolta in patria da polemiche italiote, le solite in ogni tempo quando un nostro connazionale ottiene un riconoscimento all’estero, fosse pure il premio al miglior mangiatore di spade.
Nel ruolo della madre di Grazia c’è una brava Lia Careddu che dà al personaggio una qualità di donna all’antica in contrasto con la modernità della figlia. Incomprensione generazionale, tempi antichi contro tempi nuovi, Ottocento contro Novecento. Il fedelissimo marito è interpretato da Marco Brinzi che lascia allo spettatore la sensazione di un’occasione perduta: quest’uomo che, caso raro assai all’epoca, dedica la vita alla sua donna della quale intende le qualità superiori, s’annuncia come un personaggio singolare e interessante ed invece un po’ per la scrittura e un po’ per l’attore, appare drammaturgicamente e teatralmente incompiuto, probabilmente nella speranza che si spieghi non di per sé, non per le motivazioni proprie, ma in virtù del semplice fatto d’essere il marito della Deledda. In scena anche un incostante Valentino Mannias impegnato in tre parti: troppo urlante e rabbioso nel ruolo del fratello della scrittrice, giusto e ironico quando fa il ruolo di più facile caratterizzazione del giornalista, anonimo come radiologo che deve annunciare la malattia mortale di Grazia. Accade spesso di questi tempi che le donne in scena siano più brave degli uomini. Francesco Medda, in arte Arrogalla ha montato in chiave elettronica i suoni campionati dagli ambienti della Sardegna – spiega la presentazione dello spettacolo. Si tratta, secondo la locandina, di “drammaturgia sonora”: probabilmente si ritiene che le musiche abbiano qualcosa di importante da dire e si deve imporre questo dire ad alto volume durante lo spettacolo, pur non trattandosi di teatro musicale. Si spera che la vecchia regola secondo la quale una colonna sonora pensata per la scena di prosa deve essere presente senza farsi notare non venga soppiantata dalla nuova moda della “drammaturgia sonora”.