“Cous Cous Klan”, uno spettacolo della Carrozzeria Orfeo. In scena al Piccolo Eliseo di Roma
Commedia di vendetta in discarica di monnezza
Una società distopica in cui l’acqua è stata del tutto privatizzata; fiumi, laghi, sorgenti sono sorvegliati da guardie armate; la gente vive con la sete addosso in una discarica davanti al cimitero e abita dentro a roulotte sfasciate e relitti di macchine fuori dal perimetro recintato di filo spinato che protegge i ricchi. Questa è la situazione di partenza di Cous Cous Klan in scena al Piccolo Eliseo di Roma, nuovo allestimento del collettivo teatrale Carrozzeria Orfeo, realtà di successo delle scene nazionali che ha già dato due titoli acclamati, Animali da bar e Thanks for vaselina.
L’autore dello spettacolo, Gabriele Di Luca, e i registi – lo stesso drammaturgo assieme a due degli interpreti, Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi – hanno meno di quarant’anni. Fanno parte della generazione nata negli anni Ottanta, che ovviamente non ha vissuto il ’68, la contestazione degli anni Settanta e nemmeno, perché troppo giovane, il movimento della Pantera dell’89-90. È la generazione torturata e massacrata di botte dai poliziotti criminali, su ordine di piccoli Pinochet della politica italiana, nella macelleria messicana del G8 di Genova del 2001. Probabilmente se un simile attacco dello Stato fosse stato condotto negli anni Settanta, il paese avrebbe rischiato di passare dagli anni di piombo agli anni di cenere. Invece dopo il G8 la reazione generazionale non ci fu e le vittime di Genova andarono dagli avvocati a far causa a uno Stato canaglia che, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, aveva violato l’articolo 3 della Convenzione: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
I tempi e la gioventù nel 2001 erano cambiati, tuttavia chi aveva vissuto gli anni Settanta poteva anche stupirsi d’una risposta talmente blanda da essere sospettabile di codardia da parte della generazione che aveva subito una simile repressione, una tale intimidazione. Il teatro però ha il potere di illuminare aspetti nascosti dei fenomeni storici, sociali, di costume. Cous Cous Klan nella sua atmosfera grottesca e con la sua profezia disperatamente farsesca, sembra contenere l’ammonimento a non aggravare le cose. Se nel ’77, ai tempi del “Movimento”, come si chiamava, l’ambizione era di costruire una società migliore, adesso l’idea è in primis di non peggiorarla. Posizione più realistica in effetti – il meglio è nemico del bene – e sostanzialmente lontana dalla violenza. Niente P38 né “Vogliamo tutto”, più acquedotto e mondo meno brutto.
Lo spettacolo contiene una storia complicata, assai articolata, piena di sorprese e di colpi di scena, costruita su personaggi di un’umanità emarginata ma comica nel suo cinismo da fine della civiltà. Ha il difetto di durare due ore senza intervallo, quando è chiaro che si può tagliare il testo in vari punti senza lederne la brillantezza, il ritmo e il significato, anzi eliminando alcuni passaggi meno riusciti, ad esempio la trovata superflua di rivelare che uno dei personaggi è in effetti uno spirito di ritorno dall’aldilà. Questa in architettura si chiamerebbe una superfetazione (parte aggiunta a un edificio tale da alterarne l’aspetto estetico). Sottrarre è quasi sempre migliorare. Quanto all’intervallo, respiro della mente e momentanea dilettevole sospensione del piacere, rappresenta anch’esso in un certo qual modo sottrazione e fa parte degli equilibri di uno spettacolo, che autori e regista hanno da soppesare in termini di efficacia strategica all’interno di una drammaturgia e di una tensione teatrale. Il finale, anzi i vari finali, come se il testo esitasse fra diverse ipotesi di epilogo, producono ciò che non dovrebbe mai accadere, il vuoto di applausi al buio dell’ultima scena, perché il povero spettatore troppe volte ha creduto, s’è ricreduto, e ora esita, ché a nessuno fa piacere la figura del grullo che batte le mani prima della morte di Amleto. Forse simili inconvenienti sono di autori e d’un regista molto affezionati al loro spettacolo: un torto epperò comprensibile perché per il resto la serata fila mirabilmente. E c’è di tutto, emarginazione, razzismo, violenza, solitudine, nichilismo, menefreghismo, un linguaggio aspro, duro, cattivo, politically “scorrect”, ma sempre girato dal lato dell’umorismo sardonico che caratterizza la Carrozzeria Orfeo.
Il gruppo di famiglia in interno di roulotte fatiscente è composto da un ex prete tossico, un sordomuto omosessuale, una donna orba ed erotomane, fissata con la maternità per via d’un aborto in gioventù. Sono tre fratelli che trafficano illegalmente in spazzatura e acqua potabile. Nell’altra roulotte abita un musulmano emigrato clandestinamente che di giorno seppellisce rifiuti tossici per conto di un’organizzazione criminale e di notte lavora come ambulante ma sogna un lavoro normale e non intende fare il terrorista, come il padre gli ordina al telefono. In mezzo a questo gruppo di reietti che litigano, s’accapigliano e si sgolano di improperi, arriva dalla zona recintata dei ricchi un pubblicitario compito e spaesato, buttato fuori di casa dalla moglie perché si è portato a letto una minorenne. Mentre da non si sa bene dove, piomba una ragazza strana e nevrotica che ha subito uno stupro. Il pubblicitario è anche lui spazzatura della civiltà, ma spazzatura che serve il sistema, utile come l’olio lubrificante dei motori, da avviare a termodistruzione una volta usato. La ragazza invece, sboccata, aggressiva, provocatrice, rappresenta la ribellione di chi ha deciso di fare qualcosa, almeno di impedire ai prevaricatori di passarla liscia anche stavolta. La vendetta, che coinvolgerà tutto il gruppo, sarà assurda, surreale, farsesca, anche un po’ blasfema.
Gli interpreti sono bravi, tutti bene in parte; il gruppo è compatto, affiatato, si muove preciso e veloce, ma la prova di Alessandro Tedeschi è notevole nella sua restituzione del sordomuto: controlla un personaggio difficile da fare con una perizia incantevole, evita sempre il patetico e il macchiettistico e sta in equilibrio sulla corda di un surreale grottesco in cui l’eccesso non diventa mai eccessivo. Beatrice Schiros (la donna orba) possiede un senso della battuta invidiabile, la piazza ogni volta nel momento giusto, potrebbe rubare a piacimento il tempo ai colleghi ma dimostra di avere anche un senso del collettivo raro in un un’artista dalle spiccate doti individuali. Angela Ciaburri è la ragazza, tutta un fascio di nervi e di scatti e di giravolte recitative; a Pier Luigi Pasino il ruolo del musulmano, un buono calpestato dalla malasorte d’una vita in un Occidente ormai sguaiato, delittuoso e “relittuoso”; l’ex prete drogatone è un impeccabile Massimiliano Setti, cattivo, sempre col fucile in mano, una specie di Dinamite Bla che trova l’amore e si sdilinquisce perché gli esseri umani hanno sempre bisogno d’una speranza sentimentale di felicità anche quando vivono come cinghiali accanto a un cassonetto dell’immondizia alla periferia d’una città; Alessandro Federico riesce ad assicurare una prova di tutto rispetto malgrado si cimenti con un ruolo – il pubblicitario decaduto – che per motivi drammaturgici ha pochi margini di manovra e poca riserva di fascino. Dopo questo spettacolo resta solo una speranza ed è che le distopie, così come le utopie, non si realizzano mai perché l’uomo non è capace di costruire paradisi e non riesce neanche a fabbricare inferni. Quando ci prova, e quasi ce la fa, fra le sue mani si sgretola perfino il regno di Satana.