“Edith Piaf. Le petit rossignol ne chante plus”, di Melania Giglio anche interprete assieme a Martino Duane. Regia di Daniele Salvo. Al teatro Off Off di Roma
Nera è la vita in rosa
Il padre era artista di circo, un contorsionista; la madre, nome d’arte Annetta Maillard, una funambola e cantante francese di strada e di cabaret nata casualmente a Livorno da circensi ambulanti; la nonna paterna teneva un bordello in quel di Bernay, pittoresca cittadina medievale normanna. La nonna materna Aïcha è forse la modella dipinta Henri de Toulouse-Lautrec nella Danse mauresque. Si potrebbe andare avanti così a fare la genealogia di Edith Piaf, affondando sempre di più nel ventre di Parigi e del popolo francese.
In Edith Piaf. Le petit rossignol ne chante plus (Il piccolo usignolo non canta più), spettacolo di e con Melania Giglio in scena al teatro Off Off di Roma, la grande cantante è alla fine della sua romanzesca vita. È il 1962, morirà fra un anno, nel frattempo alberga in un appartamento buio, dal mobilio nero, un sepolcro, dice. Porta una vestaglia rosa da pochi soldi, ha l’artrite reumatoide, è morfinomane per causa dei dolori, beve, viene da un coma epatico, si dispera ancora per la morte dodici anni prima in un incidente aereo del suo grande amore, il campione dei pesi medi Marcel Cerdan. Passa a trovarla Bruno Coquatrix, direttore dell’Olympia, la leggendaria sala di spettacolo parigina di Boulevard des Capucines. L’Olympia rischia di fallire e l’impresario vuole convincere Edith a fare un concerto per risollevare finanziariamente l’impresa. Incomincia una serata di vino e di canzoni, “La vie en rose”,“Milord”, “Bravo pour le clown” “L’accordèoniste”. Di ricordi, di gioie, di amarezze, l’infanzia, la povertà, i successi, i grandi concerti, l’amicizia con Marlene Dietrich, l’amore con Yves Montand che la Piaf stessa scoprì, lanciò, addestrò al mestiere. Ricordi, non rimpianti. “Non, rien de rien, je ne regrette rien”, canta Melania Giglio alla fine dello spettacolo vestita della famosa “petite robe noire”, il tubino nero di Coco Chanel che Edith portava in scena.
Diretto da Daniele Salvo, lo spettacolo è in effetti quasi uno show dell’attrice, la quale canta piuttosto bene, è un’ottima interprete, possiede una forte presenza scenica: insomma, un’artista interessante e completa. Ma rovescia sul palcoscenico un’aggressività, un’irruenza, fatta di ghigni, espressioni feroci, scatti veementi, che le precludono certe sottigliezze interpretative, seppure da lei cercate, e la sviano dalla precisione nel disegno del personaggio. Tanta Melania Giglio e non abbastanza Edith Piaf, sicché il titolo dovrebbe essere “Il piccolo giglio canta forte”. Martino Duane nel ruolo dell’impresario Bruno Coquatrix è un necessario contraltare alla protagonista, non si lascia travolgere e offre ritmi e pause allo spettacolo. Appare chiaro però che la Giglio è brava, là sopra ci sa fare e giustamente riceve applausi calorosi dalla platea. Non le resta, per esprimere tutte le sue doti artistiche, che distinguere potenza da potenzialità. E distillare questa potenza con la sicurezza di chi può permettersi la forza e la dolcezza, di chi sa, come dice l’Ecclesiaste, che c’è un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli.