“Il pellegrino” con Massimo Wertmuller al Ghione
La ghigliottina del Papa Re
Sono quattordici anni che Il pellegrino di Pier Paolo Palladino viene portato in scena e ha successo perché andare a vederlo è un po’ come stare alla finestra a guardare scorrere la vita di Roma, le giornate l’una diversa dall’altra di una città ottocentesca che cerca di rimanere immobile malgrado la Storia, le rivendicazioni liberali, l’enorme spinta degli ideali rivoluzionari francesi che oltrepassano l’avventura napoleonica e la sconfitta di Waterloo. Si sbatte gente a Castel Sant’Angelo e si tagliano teste sotto Papa Pio VII che a Parigi viene dileggiato perché Pie VII in francese suona “pissette”, piscetta. Il Pellegrino (al teatro Ghione di Roma stavolta), superbamente interpretato da Massimo Wertmuller che fa venticinque personaggi più un cavallo, è una finestra su quegli anni romani, che sono fra l’altro quelli dell’ascesa di un gigante della poesia, Giuseppe Gioacchino Belli.
Il vetturino Ninetto, che lavora a servizio del cardinal Caracciolo, ha tutte le caratteristiche della plebe romana così come viene descritta dal Belli nell’introduzione alla sua raccolta di sonetti: “In lei sta certo un tipo di originalità: e la sua lingua, i suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, la credenza, i pregiudizi, le superstizioni, tuttociò insomma che la riguarda, ritiene un’impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di popolo. Né Roma è tale, che la plebe di lei non faccia parte di un gran tutto, di una città cioè di sempre solenne ricordanza”.
Ignorante, ma arguto e cinico, romano come certe lavandare che ancora abitavano il rione Monti negli anni Sessanta, Ninetto che è uomo d’osteria e di atavica, guardinga, furba sottomissione al potere, si vede affidare dal cardinale suo padrone le cure del nipote, il conte Enrico, milanese ingenuo, candido, la testa piena di idee pericolose e velleità politiche, l’unità d’Italia, il patriottismo, la repubblica, il giacobinismo, la carboneria e quant’altro necessita per finire il soggiorno romano sotto la macchina per accorciare le teste. Da quest’incontro fra l’esperto popolano e il giovane aristocratico, il testo parte per un viaggio nell’Urbe dei coltelli, dei vicoli, della povertà e dei preti. Tutto sulle spalle di Wertmuller che, vestito all’uso di quei tempi, salta da un personaggio all’altro, da un bandito a un prelato a un oste a un principe a un barone a un crucco, passando dal romanesco alla calata milanese all’accento tedesco al napoletano verace del cardinal Caracciolo. Tuttavia lo spettacolo non è solo un riuscito spaccato di Roma ai tempi del Papa Re, è una critica all’ignavia, al qualunquismo, al disinteresse per la cosa pubblica, al “fatti gli affari tuoi che campi cent’anni”. Parla di ieri, Palladino, per parlare d’oggi, perché il teatro è come la Storia per Benedetto Croce, è sempre contemporaneo. È in questo soprattutto, che l’autore si discosta assai dal vecchio teatro romanesco, alla Checco Durante, che è sempre, o quasi sempre, rimasto confinato nelle piccole cose delle piccole storie della piccola gente di ceto impiegatizio e che non si alza al di sopra della farsa spicciola in interno di famiglia con madre in vestaglia e padre preoccupato per la figlia da maritare. Impietoso è il paragone fra la scena romanesca e la tradizione napoletana. Petrolini a parte naturalmente. Ma Petrolini era un’altra cosa, era un genio futurista. Musiche di Pino Cangialosi eseguite dal vivo dall’autore(fagotto e percussioni) e da Fabio Battistelli (clarinetto).
Al teatro Ghione di Roma fino al 3 maggio.