“Il padre” di Florian Zeller, regia di Piero Maccarinelli, con Alessandro Haber e Lucrezia Lante della Rovere. All’Ambra Jovinelli di Roma
Forma comica, sostanza tragica
I francesi sono maestri di questo genere di commedie basate su equivoci, quiproquo, agnizioni, costruite come meccanismi ad orologeria. Hanno imparato dai loro progenitori del vaudeville, Feydeau su tutti. È un teatro fatto di porte che si aprono e si chiudono, di personaggi che arrivano al momento giusto nel posto sbagliato e viceversa, al momento sbagliato nel posto giusto.
Ne Il padre, regia di Piero Maccarinelli, con Alessandro Haber e Lucrezia Lante della Rovere in scena all’Ambra Jovinelli, l’autore parigino Florian Zeller applica i dispositivi comici del genere francese alla storia di un anziano signore che progressivamente s’immerge nell’Alzheimer. Il dramma familiare che ne consegue è costruito come una commedia: una bella trovata, in effetti, che però necessita di una mano molto abile nella composizione dei dialoghi e nello sviluppo dell’azione, di modo da alleggerire l’argomento della sua intrinseca gravità senza però svuotarlo di significato umano, sociale, psicologico. D’altronde sta qui uno dei segreti dell’attuale fortunatissima produzione di commedie teatrali e cinematografiche d’Oltralpe: uno sguardo ironico e brillante eppure non superficiale sugli accadimenti della vita, anche se duri, seri, angoscianti. È una questione non soltanto di idee ma di mestiere, di tecnica e di montaggio della pièce.
Come nel buon vecchio teatro di boulevard, la porta è fondamentale: aperture e chiusure, entrate e uscite danno il ritmo all’azione e permettono al dramma di camminare. Dei bui dividono le singole scene e le configurano come delle stanze della memoria, anzi della dimenticanza. A un certo momento lo spettatore capisce: ogni buio annuncia un ulteriore avanzare del protagonista nell’Alzheimer e nell’oblio. Ma siccome l’atmosfera deve essere da commedia e non da tragedia – per scivolare dolcemente verso un finale malinconico che visibilmente emoziona la platea (di grande efficacia drammatica la retorica quando si nasconde dietro l’ineluttabile) – il gioco della smemoratezza, con i malintesi e gli scambi di persona, arriva ad assumere una dimensione surreale. Il comico sta qui, nel vuoto fra ciò che si crede e ciò che non è. Avvengono fatti prevedibili nel momento sbagliato e imprevisti nel momento giusto.
Ma fino a che punto si può ridere di una malattia che cancella la mente e genera una tragedia familiare? Esattamente fino al punto in cui arriva l’autore – ed è la sua abilità nel controllo del dramma – un attimo prima che il personaggio invece di perdersi nel vuoto cada nella farsa o nel patetico (o peggio in un farsesco patetico).
Quindi appare delicata l’operazione registica che Maccarinelli deve realizzare, soprattutto attraverso gli interpreti perché questo è prima di tutto teatro di parola. La via fra farsa e patetico è stretta. Però Maccarinelli è un regista esperto: non soltanto sa montare in scena simili meccanismi drammaturgici, ma si approccia in modo laico, quindi teatrale, al tema della malattia. Non cede mai a una tentazione ruffiana di accattivarsi il pubblico predisponendolo a micidiale commiserazione. Resta asciutto, veloce, ruba il tempo agli spettatori. Allora Alessandro Haber (il padre), attore dal temperamento che ci si aspetta esuberante, anche eccessivo, lavora invece in piena libertà espressiva ma all’interno di un rigore e di una misura che lo preservano dal pericolo di sfasciare il personaggio. E più delle emozioni, del padre tende a palesare i sentimenti che non si recitano (si interpreta l’innamorato, non l’amore), ma possono essere rivelati in grazia della creazione di un orizzonte di senso e di una condizione all’interno di una situazione. Haber ottiene risultati pregevoli, cammina fra comicità e poesia, e viene applaudito con sincerità da una platea tutta dalla sua parte che all’uscita ne loda le virtù interpretative. A dimostrazione che il pubblico, quello generico di una piovosa pomeridiana domenicale, il teatro lo capisce e comunque lo sente quando gli viene offerto come l’arte comanda. Accanto ad Haber, Lucrezia Lante della Rovere nella parte della figlia. Esistono due categorie di attrici, oltre quelle che non sanno fare il mestiere: le prime attrici e le grandi attrici. La prim’attrice possiede il carisma e il talento di saper stare su un palcoscenico, la grande attrice quello di essere un’interprete. Rare sono le artiste che appartengono ad ambedue le categorie. Lante della Rovere fa parte della schiatta d’una Rossella Falk: la sua grande presenza scenica basta a se stessa, possiede una grazia e una disinvoltura (meglio: una “aisance”, visto che si sta in ambiente francese) che la rendono credibile in scena e nascondono qualche zoppia tecnica, per esempio una vocalità non del tutto giusta.
Accanto ai due protagonisti, David Sebasti, Daniela Scarlatti, Ilaria Genatiempo e Riccardo Floris, tutti bene in parte, costituiscono un collettivo d’interpreti che funziona. Scene di Gianluca Amodio, costumi di Alessandro Lai, musiche di Antonio Di Pofi.