“L’ipocrita” di Antonio Grosso da Vincenzo Cerami al teatro Ambra alla Garbatella
La Storia dei piccoli uomini
I monologhi hanno un po’ stufato, anche se sono dal punto di vista produttivo una gran bella cosa perché costano poco. E questa in tempi di scarsità di quattrini non è qualità da sottovalutare. Permettono all’artista di andare in scena e mostrare ciò che sa fare in una situazione interpretativamente ardita. Tuttavia negli ultimi anni si è abusato del genere e il famigerato “teatro di narrazione”, il “teatro di denuncia”, gli storytelling e quant’altro si è inventato per definire il monologo – una volta esistevano il cabaret e il one-man show- hanno inondato di roba le scene italiane. Di robaccia spesso, ammannita da veri e propri abusivi del teatro, giornalisti politici e d’inchiesta con la fregola di dire la loro su governo, mafia, corruzione, stragi, attentati, brigate rosse; e attori che hanno cercato visibilità nell’adattamento teatrale di cronache giudiziarie, scandalistiche, dietrologiche e prelogiche. Il monologo però resta un’arte difficile per gente esperta e di talento, la cui aristocrazia è sostenuta da pochi, pochissimi, Dario Fo in primis.
Un bravo attore, forse molto bravo, Antonio Grosso, ha portato in scena al teatro Ambra alla Garbatella di Roma, un suo adattamento teatrale d’una serie di nove racconti di Vincenzo Cerami riuniti sotto il titolo L’ipocrita, edito nel 1991. Sono storie piccole, a tratti moralistiche, raccontano delle banalità e delle meschinità di individui comuni, delle loro speranze, ambizioni e ideali, spesso più grandi di loro, parlano degli italiani che non entreranno mai nella grande Storia, ma fanno la piccola storia che si svolge nei loro appartamenti, nei salotti e nelle camere da letto. Lo sguardo di Cerami è molto umano, d’una ironia leggera e misericordiosa, di chi sa che la nostra specie avanza nell’evoluzione spirituale assai lentamente, forse un centimetro al secolo, l’albero di ulivo è più rapido e cammina di circa due millimetri all’anno, due metri ogni millennio. Grosso ha unito i racconti di Cerami e ha costruito un solo personaggio che è uno e multiplo: ogni singolo individuo è una pluralità di persone e, per una specie di contraddizione della natura umana, la solitudine rimane l’unico stato che permette di esprimerle tutte. In questo modo Grosso giustifica pienamente il ricorso al monologo, lo svincola quindi dalla mera necessità produttiva e ne fa una scelta artistica. Allora lo spettacolo in un certo qual modo è libero, può vivere unicamente sulle capacità interpretative dell’attore. Grosso chiaramente appartiene alla napoletanità, anche se è di Battipaglia in provincia di Salerno, e ne possiede quindi la peculiare vitalità, quell’istinto del teatro, quell’orecchio che gli permettono certi tempi e ritmi giusti, lo rendono sicuro di fronte al pubblico e padrone della scena. È un artista che detiene il segreto del teatro e dell’essere attore, che per un artista campano significa la capacità di governare la naturale esuberanza e l’estroversione – fisica, gestuale, mimica, linguistica – tipiche del suo mondo e di trasformarle in spettacolo. Intelligentemente, avendo contezza del difetto principale insito in una simile fortuna antropologica, ossia l’eccesso, s’è fatto guidare da un regista, Giancarlo Fares, che ha organizzato per lui una strategia complessiva della messinscena, un alveo dal quale non tracimare. In questo modo tutta l’interpretazione è stabile e vigorosa e le musiche di Nicola Piovani non sono soltanto il grazioso intervento di un premio Oscar che omaggia Vincenzo Cerami attraverso uno spettacolo tratto dai racconti del suo amico scomparso, ma fanno parte della storia, s’infiltrano nell’umanità di questo personaggio che è un collage di caratteri novecenteschi, minuscoli, esistenzialmente filiformi, estenuati dal loro secolo.