“Elettra” di Hugo Von Hofmannsthal, regia di Giuliano Scarpinato, con Giulia Rupi nel ruolo del titolo. Al teatro Vittoria di Roma

Elettra

Un rogo d’anima consacrato ai crimini materni

Da un po’ di tempo si vedono allestimenti in cui il vero creatore di immagini teatrali è il “light designer”, come sempre più spesso lo si chiama secondo l’anglofilia di questi nostri tempi di colonialismo linguistico e culturale. Poco manca che i bravi pasticceri ambiranno al titolo di “cake stylist” e gli spazzini diventeranno degli  “street make up artists”.
Però è vero che se l’arte di uno spettacolo sta principalmente nell’illuminazione, allora c’è qualcosa che non va. Luci di Danilo Facco, da quanto si legge con semplicità sulla locandina, per l’Elettra di Hugo Von Hofmannsthal, rielaborata drammaturgicamente e diretta al teatro Vittoria di Roma da Giuliano Scarpinato, artista trentenne “emergente”, come si dice. Interprete nel ruolo del titolo Giulia Rupi, anche lei in emersione. Sono tutti nati negli anni Ottanta gli attori di questo allestimento – salvo il quarantenne Lorenzo Bartoli che fa Egisto – e quindi rappresentano la generazione che ha superato gli anni della formazione (ipotizzando che la formazione abbia un termine) e sta nel mestiere con idee e energie nuove. O almeno si spera.
Elettra, figlia di Agamennone e Clitennestra, vive a Micene nel palazzo degli Atridi costretta a un’esistenza di umiliazioni e percosse. È passato molto tempo dal giorno in cui Clitennestra, con l’aiuto dell’amante Egisto, uccise Agamennone. È l’odio che devasta la psiche di Elettra e che la trasforma da vittima in carnefice. Arricchito dall’autore di immagini metaforiche, si tratta di un dramma dell’odio moltiplicato dai sintomi dei disturbi isterici studiati da Freud alla fine dell’Ottocento.
Questo testo è quindi un oggetto complicato, da non rielaborare troppo per non squilibrarlo, che si fonda su una constatazione dell’autore stesso: “I miti classici sono contenitori eterni in cui i poeti di ogni epoca riversano un contenuto spirituale e psichico sempre nuovo”. Tratto dalla tragedia di Sofocle, messo in scena per la prima volta a Berlino nel 1903 dal grande Max Reinhardt, musicato successivamente da Richard Strauss, il dramma è un’indagine sulla psiche attraverso figure classiche demitizzate. Ecco in sintesi perché una certa tensione verso il “bello per il bello” che qui traspare riempie una valigia di perplessità. La sensazione è che la regia abbia preso il testo per il solo verso dell’estetica. Ma l’estetica senza poetica è cosmetica. Quindi non basta l’illuminazione per segnare uno spettacolo e anzi se una regia non è abbastanza ferma nei suoi intenti, il rischio è che un bravo datore luci si porti involontariamente la messinscena dove vuole lui. Vero che Hofmannsthal fu un maestro della forma, un poeta prigioniero della bellezza plastica della parola, del potere seducente dell’immagine e del simbolo, ricco di suggestioni oniriche e mistiche nel suo rifugiarsi in un narcisistico ed egoistico estetismo volto alla fuga dalla realtà del proprio tempo. Ma questo è l’Hofmannsthal della cosiddetta fase pre-esistenziale. Poi a cavallo fra Otto e Novecento ci fu la crisi e una svolta vera e propria nella maturazione artistica del poeta, il quale avvertì con forza la necessità di cogliere ed esprimere il mondo nella sua immediatezza abbandonando la strada di un esasperato impressionismo lirico per riconquistare il senso della realtà.
Si tratta di un autore molto complesso che non cessa mai di camminare e non è semplice individuare di volta in volta in quale punto sta. Con lui si rischia di mettere in scena il suo dramma precedente o quello successivo. Quindi non sarebbe giusto cogliere l’occasione di questa Elettra per appiccicare a Scarpinato un’etichetta registica e stilistica perché si sente che si sta di fronte a un giovane metteur en scène che sta cercando e bisogna vedere cosa troverà.

Marcantonio Lucidi,
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