“Non ti pago” di Eduardo De Filippo, regia di Luca De Filippo, con Gianfelice Imparato e Carolina Rosi. All’Argentina di Roma
Teatro alla moderna italiano
Scritta nel 1940, inserita nella Cantata dei giorni pari, che sono quelli buoni, fortunati, Non ti pago di Eduardo è una commedia che si potrebbe definire femminile (mentre per esempio Napoli milionaria!, che sta nei giorni dispari, sarebbe maschile). Tre atti dolci e accoglienti ma con una vena di inquietudine che li attraversa fino a un lieto fine non del tutto lieto, come se la pace dopo il conflitto non potesse essere perfettamente placida e rasserenante, come se comunque la tranquillità provenisse da un atto volontario di dimenticanza. Le grandezze di Eduardo sono molte, una sta nel suo sguardo aspro sugli uomini e le donne anche quando sembra distratto, quando la sua meravigliosa mano drammaturgica accarezza una curva surreale. Evitare sempre di prendere sottogamba Eduardo, il suo non è mai un ridere per ridere.
Questa in scena all’Argentina di Roma è stata l’ultima regia di Luca De Filippo prima della scomparsa nel novembre 2015 e viene la tentazione, sicuramente un po’ scontata, di pensare che si tratti d’una sorta di suo testamento teatrale. Perché anche in lui vi è uno sguardo di dolcezza aspra nel modo con cui ha diretto la commedia. E la dolcezza aspra, che è segno di una distanza, che è osservazione entomologica (e misericordiosa) dell’insetto umano, conduce al rigore.
Uomo di teatro dal valore non pienamente riconosciuto, anche perché figlio di un gigante del Novecento, Luca De Filippo con l’allestimento di Non ti pago confermava ancora una volta d’essere un regista filologico. Tuttavia a guardare bene lo spettacolo, il suo rispetto del testo e la sua accuratezza nella messinscena paiono conseguenze non solo d’un riguardo nei confronti del padre ma di un’estrema adesione alla disciplina del teatro. Il teatro si fa osservando determinate immutabili leggi e l’arte, se viene, sorge dentro queste leggi, non ne esce. Basta vedere come Giovanni Allocca interpreta l’avvocato Lorenzo Strummillo, ruolo secondario ma fondamentale per l’avanzare della vicenda. A un certo momento, straccia dei fogli di carta su cui ha scritto degli appunti da azzeccagarbugli: il movimento deve scattare come un gesto ma deve avere il valore di un atto, essere spontaneo e contemporaneamente intenzionale. È una battuta gestuale che ha un solo tempo di esecuzione e non un altro. Questa è la precisione teatrale che Luca De Filippo cercava e che tutti gli attori della compagnia praticano. In primis Gianfelice Imparato, attore eduardiano, che ha sostituito il regista nel ruolo protagonista di Ferdinando Quagliuolo, gestore d’un banco lotto a Napoli e a sua volta giocatore ma sfortunato assai. Invece ripetutamente vincitore è un impiegato del banco, Mario Bertolini, per giunta innamorato della figlia di Ferdinando. Quando Mario vince quattro milioni di lire giocando la bislacca quaterna 1, 2, 3, 4 e ammette che i numeri gli sono stati dati in sogno dal padre defunto di Ferdinando, quest’ultimo s’innervosisce a tal punto che rifiuta di pagargli la vincita e si intasca il biglietto. Sostiene che lo spirito del genitore si è sbagliato, che ha commesso uno scambio di persona recandosi a spifferare i numeri giusti nella vecchia abitazione dei Quagliuolo, ora occupata da Bertolini. Insomma anche nell’aldilà si fa confusione e il giovane non deve appropriarsi di denari non suoi. Quindi arrivano il prete, l’avvocato, la figlia si dispiace, la moglie cerca di riportare alla ragione il marito testardissimo, il quale intende pure rivolgersi al giudice, come tutti in Italia d’altronde, c’è sempre qualcuno che vuole fare causa a qualcun altro. “Attento, io le faccio causa” è la frase a effetto della causa.
Malgrado l’invidia, e dopo una serie di contese surreali, dispute assurde e persino un colpo di pistola per fortuna a vuoto, Ferdinando si trova costretto a restituire il biglietto vincente non senza maledire il giovane se per caso s’azzarda a ritirare la somma. L’anatema ovviamente funziona e Bertolini incassa guai invece di soldi ogni volta che tenta di riscuotere. Le potenze occulte sono a Napoli ciò che la vista è ai ciechi: un enigma contro il quale si va a sbattere. Essere superstiziosi è da ignoranti, diceva Eduardo, ma non esserlo porta male.
Vero che la compagnia in scena è di tradizione italiana, ma all’interno di un sistema di gerarchie degli attori ben ferme l’ensemble si muove come un corpo unico, possiede una sua individualità collettiva che rende lo spettacolo compatto, omogeneo, equilibrato. Sono tutti bravi, ciascuno nel quadro delle proprie responsabilità artistiche. Non ci sono cadute di ritmo e tempi morti, né manchevolezze recitative, questa è una macchina che macina teatro con disciplina e senso del comico, ché le due cose vanno insieme. Gianfelice Imparato si porta in giro per la scena il suo Ferdinando restituendone i vari mutamenti, dall’ironia, all’ira, all’ostinazione; Carolina Rosi nel ruolo della moglie Concetta è un’interprete solida, ben assisa sul personaggio, con vari momenti suoi felici; Massimo De Matteo si fa apprezzare (come avrebbero detto i cronisti teatrali di una volta) nei panni di Mario Bertolini; Viola Forestiero restituisce una deliziosa camerierina che saltella e folleggia; Gianni Cannavacciuolo è un prelato (Don Raffaele Console) sornione, pacioso e sottile; poi lavorano Carmen Annibale, Paola Fulciniti, Federica Altamura, Andrea Cioffi, l’ottimo Nicola Di Pinto.
Costumi di Silvia Polidori giusti, precisi, pensati sul carattere dei personaggi; scene di Gianmaurizio Fercioni belle, ariose, descrittive e concepite anche come servizio agli attori per gli ampi spazi di manovra che offrono. Musiche di Nicola Piovani che annunciano a mo’ di prologo ognuno dei tre atti e ne prefigurano l’atmosfera che li caratterizza.