“Il pellicano” di August Strindberg, regia di Walter Pagliaro, con Micaela Esdra. Al Palladium di Roma
Madre, onora i tuoi figli
Il pellicano è un terribile dramma da camera scritto da August Strindberg nel 1907 che a suo tempo non ebbe molto successo. È la storia di una famiglia devastata da Elise, una madre tirannica, una Medea cattiva, egoista, avara che ha distrutto i suoi due figli Gerda e Friedrik negando loro il cibo, vessandoli, umiliandoli. Il padre è morto, Gerda è sposata con l’amante della madre, Friedrik è un ubriacone. Per il regista Walter Pagliaro, che ha messo in scena il testo al Palladium di Roma, il parallelo con Shakespeare appare ovvio: Friedrik è Amleto, Elisa è la regina Gertrude, Gerda è Ofelia, il genero è Re Claudio, il padre morto è il fantasma, presenza spettrale evocata da una sedia a dondolo che oscilla vuota. Per preparare lo spettacolo, Pagliaro ha lavorato un anno, ha letto tutti i testi di Strindberg, studiato le opere autobiografiche, ispezionato il filosofo, mistico e chiaroveggente svedese Emanuel Swedenborg che influenzò il drammaturgo. È anche andato a Stoccolma a visitare l’Intima teatern (che esiste ancora) dove il dramma fu rappresentato la prima volta.
Ricco di informazioni e di cultura strindberghiana, Pagliaro ha allestito uno spettacolo di tono espressionistico in cui Micaela Esdra ha il ruolo protagonista della madre. Ma cosa il regista ha messo in scena veramente, il testo o l’apparato di note e la messe di osservazioni e riflessioni che ha estratto dalle sue lunghe ricerche? Il pellicano non è un capolavoro, bensì l’ombra di un capolavoro perché è troppo rigido e i suoi personaggi appaiono tagliati in modo secco. Si tratta di un’opera gotica se si intende l’aggettivo nel significato che gli dava il settecentesco Francesco Milizia, grande teorico del neoclassicismo e autore di un Dizionario delle belle arti e del disegno: “La rozzezza e la magrezza delle forme costituiscono il carattere della scultura gotica. Per la pittura convien a questi vizii aggiungere i toni crudi, i colori interi, e la dimenticanza assoluta della natura. Figure corte e senza moto, morte”. D’essere corta e morta è proprio la natura dei personaggi del dramma, tanto che il primo titolo pensato dall’autore era “I sonnambuli”. Pagliaro vuole invece dare uno spessore tenebroso, una corposità malata a queste anime disseccate e scheletriche, cerca in loro una complessità barocca, grottesca, un mostruoso allegorico che forse sta più nell’idea di chi guarda i personaggi che nei personaggi stessi. La posizione del regista nei confronti del dramma sembra di tipo intellettuale e produce ragionamenti da studioso che occupano anche lo spazio di una risolutrice intuitività artistica.
Pagliaro insomma mette in scena non una visione del testo ma una speculazione sul testo, demandando la visionarietà a un’atmosfera espressionista arricchita da teste mozzate di animali e da una vasca da bagno insanguinata un po’ troppo tragicamente grandguignolesche. Anche qui sono citazioni, sono chiose, e la prova stessa di Micaela Esdra (e degli altri attori) si configura non come un’interpretazione del personaggio ma come un giudizio sul personaggio: la condanna morale di Elise appare formulata aprioristicamente in sede di lettura del testo, prima che si alzi il sipario, e non scaturisce da quanto si svolge in scena. Ma se già all’inizio non esiste possibilità per nessuno, se tutto è già detto e sentenziato prima che incominci il dramma, allora lo spettacolo finisce per diventare un’autocitazione. Non teatro ma autoteatro che verifica se stesso e, in ultima analisi, glossa che glossa la glossa. In scena anche GIacomo Vigentini, Dalila Reas, Fabrizio Amicucci e Luisa Novorio.