“L’apparenza inganna” di Thomas Bernhard, regia di Federico Tiezzi, con Sandro Lombardi e Massimo Verdastro. All’India di Roma
La solitudine dell’artista e l’arte della solitudine
Nel 1988, a proposito dello stato della scena italiana di quegli anni, Federico Tiezzi in un’intervista rilasciata per un saggio di Oliviero Ponte di Pino (Il nuovo teatro 1975 – 1988) dichiarava: “Dobbiamo prendere possesso di questa realtà perché siamo gli unici in grado di farlo”. Al di là della giovanile sparata, sono passati quasi trent’anni e bisogna ammettere che la compagnia Lombardi – Tiezzi la sua porzioncina di realtà se l’è presa. Non si può onestamente chiedere di più agli esseri umani se non ciò che possono dare. Il vero sogno del proletariato rivoluzionario è di diventare borghese. Non ci vuole molto a diventare borghesi: un po’ di soldi, una rassicurante dose di conformismo, un rimasuglio delicato del vecchio odor di zolfo protestatario come d’una leggera doratura d’aglio, l’acquisizione di tecnica accorta per allestire con le luci giuste, con un bell’arredo di mobili e poltrone di buon gusto, con i vestiti tagliati a dovere sugli attori. E la recitazione segue, naturalmente.
Sandro Lombardi diretto da Tiezzi in L’apparenza inganna di Thomas Bernhard – spettacolo andato in scena all’India di Roma – è un attore di cui si dice sempre un gran bene, come si dice un gran bene del delizioso borgo che gli ha dato i natali, Poppi in provincia di Arezzo, e dell’artigianato del mobile che vi si pratica. Lombardi è un interprete con un suo segreto: non recita con naturalezza ma recita la naturalezza. Il suo è l’artifizio del naturale, Lombardi è un attore di ragione: intimamente freddo di temperamento, vede le caratteristiche esterne degli uomini e le cataloga nella sua collezione mimica. Si muove in scena adottando una tecnica della sincerità da prestigiatore della recitazione apparentemente rilassato ma molto attento alla propria bravura. Infatti il ruolo del vecchio giocoliere Karl nel testo di Bernhard gli si attaglia alla perfezione. Massimo Verdastro invece, più semplice, più autentico, interpreta Robert, anziano attore e fratello di Karl. Sono due artisti in pensione. Si fanno visita due volte a settimana, Robert va da Karl il martedì, il contrario avviene il giovedì. Il dramma è strutturato con un’alternanza di monologhi, che si svolgono mentre l’uno aspetta l’altro, e di dialoghi: il gioco di Bernhard sta nel mostrare che la solitudine dei due protagonisti non muta con il mutare della situazione.
Vi è un terzo personaggio, una figura fuori scena, un fantasma, Mathilde, la defunta moglie di Karl, che nel suo testamento ha lasciato una casa a Robert e non al marito. La relazione fra i due uomini è come una rete da pesca: a tirarla su si trovano rancori, recriminazioni, tormenti, battute acide, insulti. Il giocoliere ritiene che la sua arte sia superiore a quella dell’attore, Robert è ossessionato dall’idea di tornare a interpretare Re Lear che deve essere invece un’idea fissa dello stesso autore, il quale la ripropone in un altro suo testo, Minetti – ritratto di un artista da vecchio.
D’altronde anche in L’apparenza inganna, Bernhard sviluppa il tema della vecchiaia e della decadenza nell’artista di spettacolo, della sua solitudine e della sostanziale sconfitta di una vita di palcoscenico. È come se lo scrittore austriaco fosse ipnotizzato da un luogo comune e tentasse di sceverarlo per trovare una sorta di verità assoluta sulla vocazione perdente al teatro. Ma si tratta di una specie di ridondanza determinata dall’aura romantica e maledetta della vita buttata in nome dell’arte. Tutto sommato la domanda è sempre la stessa: cos’è più interessante, il creatore o la creazione? La risposta è vana, perché demandata all’indole di chi risponde. C’è chi si occupa della solitudine dell’artista e chi dell’arte della solitudine.