“Una casa di bambola” di Henrik Ibsen, regia di Andrée Ruth Shammah, con Marina Rocco e Filippo Timi. All’Argentina di Roma
Nora che diventò una donna moderna
Per un’attrice il ruolo di Nora in Una casa di bambola di Henrik Ibsen è un’occasione meravigliosa. Nora è una delle più belle parti femminili del repertorio occidentale e la protagonista assoluta del dramma. I ruoli maschili sono comprimari. Andrée Ruth Shammah, regista dell’allestimento attualmente in scena all’Argentina di Roma, ha deciso di affidare i tre personaggi di Helmer (il marito), del Dottor Rank e del procuratore Krogstad ad un unico interprete, Filippo Timi. Nel programma di sala la regista così spiega la scelta: “Ho visto i personaggi maschili subito come le tre facce di uno stesso uomo”. E poi: “Fondere i tre personaggi in un’unica visione è stato essenziale per focalizzare l’attenzione sull’universo relazionale uomo – donna su cui, in parte, si è concentrata la mia interpretazione del testo”.
Tuttavia una domanda sorge: se non avesse avuto le tre parti, diventando quindi prim’attore accanto Marina Rocco che, interprete di Nora, è prim’attrice, Timi avrebbe accettato di fare lo spettacolo? In questo modo il triplice interprete diventa protagonista e ha l’occasione di offrire una prova praticamente da mattatore in cui viene profondamente modificato il rapporto fra l’attore e l’attrice e a cascata stravolto proprio l’universo relazionale uomo – donna che assume così connotati diversi da come Ibsen lo aveva concepito. Nella sua raccolta di articoli scritti per il Corriere della Sera fra il 1921 e il 1943 intitolata Cose viste, lo scrittore, critico d’arte e giornalista Ugo Ojetti ricordava che un giorno il grande drammaturgo norvegese andò ad assistere a una rappresentazione del suo Spettri, protagonista un famoso mattatore dell’epoca, Ermete Zacconi, e commentò: “Zacconi recita sotto il mio nome un dramma, “Spettri”, che non è il dramma mio”.
Indubbiamente Timi è un bravo attore ma, soprattutto nel ruolo di Helmer, si concede a momenti delle libertà interpretative e dei protagonismi che hanno poco o punto a che vedere con il personaggio e lo riducono da psicologia a carattere. Per esempio quando deve esitare ad aprire la lettera della signora Linde, l’amica di Nora, Timi si abbandona a tutto un gesticolare da scenetta comica. Sono trovate tipiche di un artista che proprio non ce la fa a stare sempre dentro il personaggio e lo deve sovrastare. Evidentemente Shammah ha concesso all’attore brevi momenti suoi, riconoscendogli nelle note di regia di essersi “contenuto per non sfondare come sua indole e abitudine”. Allora la domanda diventa: ma Filippo Timi, per le sue caratteristiche, è naturalmente adatto a interpretare Ibsen oppure incardinarlo in questo tipo di teatro è tutto sommato una forzatura che il mestiere riesce parzialmente a nascondere? Perché Timi continuamente recita alla frontiera dei tre personaggi, anche se la regia lo imbriglia per mantenerlo centrato, e sembra sempre che stia lì lì per uscire dal ruolo e abbandonarsi a una carrettella. Conta non soltanto cosa si fa in scena ma anche la sensazione che si dà di cosa si potrebbe o si rischierebbe di fare.
Suona assai più giusta la prova di Marina Rocco. La sua Nora è una bambola con un carillon all’interno che nell’avanzare del dramma progressivamente si inceppa e non suona più la musichetta della donna-bambina ingenua, ignara delle cose del mondo e necessitosa di protezione maschile. Incomincia invece a gracchiare il rumore della propria presa di coscienza e dell’emancipazione. La regia non l’ha voluta vittima che alla fine si sveglia ma ha inteso darle fin da subito una connotazione di manipolatrice. D’altronde è vero che Nora mente fin dall’inizio e che ha ordito l’imbroglio dal quale il dramma parte, ossia avere falsificato la firma del padre in occasione di un prestito illecito da lei contratto con Krogstad, il quale adesso la ricatta. Quei soldi le servivano a salvare la vita di suo marito, minacciato da una malattia che solo un costoso viaggio di riposo in Italia avrebbe potuto guarire. Insomma, non è così sprovveduta, Nora, ed invece capace di organizzare un intrigo per cavare la famiglia dai guai: questo lo spettacolo suggerisce. Impostare il personaggio sull’idea di una donna ingenuamente astuta, oca e impostora, è un’operazione che mette l’interprete su una via stretta e complessa. Anche perché Nora resta pur sempre una pecorella finita nelle fauci del lupo e sembra non rendersi conto della gravità della firma falsificata fin quando Krogstad non gliela sbatte in faccia. E lei si ritrova in una morsa da cui non sa come liberarsi, salvata dalla assai più scaltra Signora Linde. Quindi la protagonista, alla prova dei fatti, resta un’anima candida. Ma siccome la regia le ha trovato un fondo di astuzia, il colpo di scena finale in cui lei improvvisamente prende coscienza della vera personalità di suo marito e delle reali condizioni del suo matrimonio funziona meno: la furbizia sfrutta le debolezze altrui, non le respinge; è dall’innocenza che nascono il disgusto e la disistima per l’altro.
Comunque all’interno dell’analisi di Andrée Ruth Shammah, Marina Rocco trova – grazie anche alla regista stessa – un governo del personaggio molto equilibrato. Si vedono una grazia in questa attrice, un’eleganza che le permettono di imporre la propria femminilità sottile e resistente di fronte al dilagare di Timi e di ribadire la femminilità e la centralità di Nora, bambola infine cosciente e coraggiosa al cospetto della vasta mediocrità maschile.