“Minetti – ritratto di un artista da vecchio” di Thomas Bernhard, con Roberto Herlitzka diretto da Roberto Andò. All’Argentina di Roma
L’artista che si negò alla letteratura classica
Se si ritiene che Minetti – ritratto di un artista da vecchio (all’Argentina di Roma) di Thomas Bernhard sia un testo poco teatrale nel suo procedere come un flusso di coscienza piuttosto ripetitivo, tautologico, allora si deve altresì sostenere con semplicità che Roberto Herlitzka è uno dei maggiori attori italiani degli ultimi decenni. Perché rendere altamente teatrale un testo che mette in scena il grande attore tedesco Bernhard Minetti (1905 – 1998) e lo immagina nella hall di un albergo di Ostenda a non combinare niente se non monologare sull’arte sua e fare i cento passi, sedersi, alzarsi, aggirarsi, risedersi, rialzarsi, dire e ripetere, è faccenda che chiede il sopraffino.
Bernhard attraverso Minetti, che fu suo attore prediletto, disquisisce dell’arte scenica secondo una vecchia costumanza per la quale gli autori invece di scriverlo, questo benedetto teatro, ogni tanto lo discutono, lo teorizzano, lo condannano e anche lo assolvono: ah, la grande avventura esistenziale del palcoscenico da amare e odiare; oh, la terribile sofferenza del tapino condannato a una vita venduta per l’arte, tutta roba che si sa, signora mia, sua figlia non faccia l’attrice, meglio portiera in un condominio di Caltanissetta, ne guadagnerà in salute e buon nome. Il teatro per Bernhard è un’attività indifendibile, un raggiro, una simulazione.
È vero però che si può vedere la posizione di Bernhard dal punto di vista di colui che aspirerebbe a un altro teatro da quel che si fa, secondo un desiderio del meglio, peraltro nemico del bene, e del raggiungimento di risultati più alti, più consoni alla dignità dell’uomo. Tuttavia lo scoramento non procede dal pessimismo, piuttosto dall’ottimismo in quanto ritiene che il meglio da qualche parte esista, è concepibile, e solo la mancanza di volontà e di immaginazione ne impedisca la realizzazione. I pessimisti sono degli inguaribili ottimisti perché valutano la distanza che separa la realtà così com’è da come dovrebbe essere e quindi postulano un’ipotesi evolutiva.
Tuttavia un drammaturgo potrebbe incominciare da se stesso nella ricerca di un nuovo teatro, come Goldoni, Pirandello ed Eduardo, per fare tre nomi che vengono spontanei, i quali da veri innovatori si sono occupati del teatro sul teatro, del metateatro, del teatro che rappresenta se stesso e con grande mestiere e densità poetica, con la malinconia anche di chi in scena riflette sulla vita della scena e sulla scena della vita, hanno osservato la forza d’un destino, come d’un pensatore che inevitabilmente pensa sul proprio pensare e lo modifica. Ma Bernhard si predispone a un filosofare da camerino che non è lo stesso dell’Edmund Kean di FitzSimons, ma d’un artista in fase di lamentazione chiamato ad entrare in scena solo per dire alla marchesa che il pranzo è servito. “Capisce signora mia, il mondo è pieno di esistenze artistiche distrutte”, osserva Minetti. Oppure: “Ribaltare in un solo istante il senso della storia e la storia del senso”. Detta così è una specie di sasso semantico lanciato nel lago, o infilato nell’ago, della filosofia del linguaggio quando la si discute di fronte a due birre che notoriamente sono delle poliziotte. Ma la proposizione di Minetti che più ricorre è: “Per trent’anni mi sono negato alla letteratura classica”. Quest’unica battuta continuamente ripetuta è sufficiente per capire la grandezza di Herlitzka: la varia sempre, la irrigidisce, la scioglie, la anticipa, la ritarda, la sfuma, la colora, la accarezza, la neutralizza, la esalta fino a farne un oggetto comico che corre come un filo di ferro lungo tutta la sua interpretazione. È lui, l’attore, che disegna il ritratto dell’artista da vecchio con un’economia di gesti e di toni che non affermano mai né un sì né un no ma sempre un “forse”: “forse” è l’avverbio che caratterizza la parola di Herlitzka, la parola del dubbio e della volontà, della ritrosia e della presenza, dell’esserci un attimo prima di andarsene, del muoversi fermi, del monologare dialogando, del silenzio dentro il dire.
Minetti nella hall dell’albergo, alle nove di sera, in una notte di Capodanno tempestata di neve, aspetta il direttore del teatro di Flensburg che gli ha offerto il ruolo di Re Lear, finalmente. L’attore non va in scena da trent’anni perché “si è negato alla letteratura classica”, salvo Lear, che è “il” ruolo, il suo. L’attesa, che è sempre un “forse”, si protrae, scivola lentamente verso il “no” – il direttore non arriva – mentre il vecchio artista parla a due donne quasi sempre mute, che forse lo ascoltano, prima una signora in rosso che ha ordinato champagne, poi un’adolescente invitata al ballo di fine anno che aspetta il suo cavaliere. Dalla tempesta di neve entrano nell’albergo avventori mascherati, silenti (questo è il dire dentro il silenzio), figure alla James Ensor spettrali, demoniache, deformi. Entrano nell’ascensore per andare forse da qualche parte, verso i piani di vite scheletriche che chiamano ed inghiottono. C’è questa lentezza che Roberto Andò – regista ispirato, d’una levità intensa, aiutato da scene e luci perfette di Gianni Carluccio – ha voluto, perché la lentezza è la lama che taglia la tirannica dualità del “sì” e del “no”, libera il probabile e il possibile eppure sospinge Minetti verso un saturnino crepuscolo di improbabile e di impossibile. Al centro della hall, sulla guida rossa, sta posata la valigia del vecchio artista che contiene un’altra maschera di Ensor. Herlitzka la indosserà: è la fine dello spettacolo, è il termine della vita, l’illusione è la forma grottesca che la verità assume.