“Filumena Marturano” di Eduardo De Filippo, con Mariangela D’Abbraccio e Geppy Gleijeses diretti da Liliana Cavani. Al Quirino di Roma

30/06/2016 59 Festival di Spoleto. Teatro Nuovo Giancarlo Menotti. Spettacolo Filomena Marturano, regia Cavani. Nella foto Mariangela D’Abbraccio e Geppy Gleijeses, Nunzia Schiano, Domenico Mignemi, Gregorio Maria De Paola, Elisabetta Mirra, Ylenia Oliviero, Agostino Pannone, Fabio Pappacena, Eduardo Scarpetta

Alla regia non dire che è teatro

Non sbaglia un colpo Nunzia Schiano nel ruolo di Rosalia Solimene in Filumena Marturano. Sta sempre nel punto giusto al momento giusto, ogni sua battuta è secca, veloce, si muove in scena con precisione e discrezione. Caratteriste di tale bravura sono una sicurezza per un allestimento diretto da una regista, Liliana Cavani, che si appalesa pienamente per quel che è in ambito teatrale, una debuttante. Non una regia del testo di Eduardo De Filippo, ma una sorta di organizzazione del traffico di palcoscenico priva di un’idea portante se non quella ovvia che la Cavani stessa rileva nelle sue note: “È un’opera di grande impegno morale e oltretutto in anticipo sui tempi e scritto senza retorica, ma con la naturalezza della vita”. E aggiunge: “L’attore poi in teatro è nudo, va in scena nudo ogni volta, misurato dal pubblico ogni volta”. La qual proposizione è, come ognun sa, di grande verità seppur non s’è potuta misurare la nudità dei due protagonisti Mariangela D’Abbraccio nel ruolo del titolo e Geppy Gleijeses in quello di Domenico Soriano perché sono andati in scena ben vestiti dei loro personaggi, soprattutto la prima, e ottimamente abbigliati con i costumi di Raimonda Gaetani anche scenografa di qualità.
Una regia spoglia di idee è un lusso possibile quando in scena lavora un’attrice come la D’Abbraccio in grado di caricarsi lo spettacolo sulle spalle e sfruttare al massimo la grande parte femminile inventata da Eduardo, perfetta per lei che se l’aggiusta ben bene per la propria fisicità e per il proprio modo di stare in scena con grinta, forte presenza e duttilità nei diversi e complessi cambi di registro interpretativo. Sartoria della recitazione questa, con un po’ di stoffa in eccesso all’inizio perché la D’Abbraccio parte leggermente troppo carica nel primo atto. Sicché quando s’arriva alla grande scena del secondo atto in cui Filumena decide di abbandonare la casa di Soriano in cui vive, e l’attrice deve spingere ulteriormente per marcare l’arco di evoluzione del personaggio, corre il rischio di andare oltre, di esagerare e squilibrare l’interpretazione. Sono cose che avrebbe dovuto calibrare la regia, la quale ha come compito fondamentale di far sentire agli attori che lo spettacolo attorno a loro c’è, altrimenti un’artista come la D’Abbraccio, tecnica ma comunque istintiva, percepisce dei vuoti, s’inquieta e tende giustamente a riempirli a modo suo, sacrificando alla compattezza e alla coerenza della formalizzazione scenica. E vuoti nello spettacolo ve ne sono. Delicato ruolo di sponda dalla misura molto difficile, Domenico Soriano ha da essere travolto dalla personalità di Filumena ma non deve cadere all’improvviso ed invece cedere lentamente perché sia ben giustificato il terzo atto, quando decide di sposare l’ex prostituta da lui mantenuta per un quarto di secolo, anche se ancora non sa di quale dei tre figli di lei è il padre. Invece Gleijeses un po’ cade, appare sottotono, persino dimesso a momenti di fronte alla prova della D’Abbraccio, dà l’impressione di essere stato lasciato solo da una regia che non lo ha aiutato a risolvere il personaggio. Si aprono dei vuoti allora che condizionano il ritmo complessivo della rappresentazione il cui centro sta nella relazione fra i due protagonisti. Lo spettacolo quindi in vari momenti s’affloscia e fa le pieghe come un vestito dalle cuciture imprecise che non offre personalità e sicurezza e le demanda a chi lo indossa. Potrebbero a onore del vero essere incidenti d’una sera, inevitabili fin quando sulle nostre scene non compariranno gli attori virtuali, detti anche silicentrici, e con la gestazione elettronica del clone al silicato, siliconato, siliclonato si sarà raggiunta la disumanizzazione del teatro e l’eliminazione della paga.
Gli altri componenti della compagnia fanno quasi tutti bene ciò che il loro mestiere chiede, portare a compimento i personaggi a ciascuno affidati. Ma il loro è lavoro di buona tattica e non di strategia, d’attori che evolvono in assenza di un orizzonte estetico e poetico di riferimento, fatta salva la scenografia, e vanno sul mestiere individuale, cercando di portare a casa la serata e di offrire alla Cavani il premio che non merita. Sono Mimmo Mignemi (un bravo Alfredo Amoroso), Ylenia Oliviero (che fa un’amante di Soriano, Diana, con una prova breve ma inconsistente), Elisabetta Mirra (Lucia), Fabio Pappacena (l’avvocato Nocella), oltre ad Agostino Pannone, Gregorio Maria De Paola ed Eduardo Scarpetta (il quale porta un nome a dir poco pesante teatralmente parlando) che interpretano i tre figli di Filumena.

Marcantonio Lucidi,
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