“L’uomo dal fiore in bocca…e non solo” di Luigi Pirandello, regia e interpretazione di Gabriele Lavia. Con Michele Demaria. Al Quirino di Roma

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Morire è vedere

Gabriele Lavia è uno degli uomini di teatro che più capisce di teatro in Italia. Dovrebbe essere cosa pacifica per chiunque pratichi l’arte, ma Lavia oltre ad essere un artista della scena, ne è uno scienziato: un romantico con un’indole selvaggia, barbarica quasi, governata da un pensiero matematico. L’allestimento de L’uomo dal fiore in bocca… e non solo che da regista e interprete ha portato in scena al Quirino di Roma, è prima di tutto un esercizio di precisione che di Lavia svela l’ambizione suprema di essere perfetto. Il teatro come sfida e atto assoluto, come dichiarazione a un dio, nascosto da qualche parte dietro il velo dell’universo, che anche l’essere umano ha il potere di creare mondi al di là del sipario.
Prima o poi, Lavia avrebbe quasi certamente affrontato questo testo di Pirandello perché racconta dell’uomo nel punto più profondo della vita, quando sta di fronte alla morte: “Venga… le faccio vedere una cosa… Guardi, qua, sotto questo baffo… qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella: epitelioma, si chiama. Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma…”. Il fiore in bocca è thanatos che si manifesta con una soavità femminile, con la delicatezza di un bacio muliebre che il regista non può lasciare schioccare alle sole labbra della morte. “… e non solo”, recita il titolo dello spettacolo perché Lavia inserisce nel testo originale vari passaggi sulla donna presi da altre novelle pirandelliane. Non si può rinunciare alla donna, alla melagrana della vita (anche se per Pirandello essa è una malattia esiziale), neanche di fronte alla propria fine, neppure nella sala d’aspetto di una stazione ferroviaria in una notte di temporale estivo. L’uomo dal fiore in bocca e il suo interlocutore, il “Pacifico Avventore”, sono entrambi in partenza, ma mentre per il primo il viaggio è certo, solo questione di tempo, il secondo, un individuo semplice, qualunque, perderà il treno. La morte è conquista, la vita perdita.
Dramma dell’attesa in una sala d’aspetto e tragedia del vedere dal buio del Nulla, perché un attimo prima di chiudere gli occhi si osserva ogni più piccolo dettaglio del mondo. Come un microscopio che stringe la sua ottica sul minuscolo essere posato sopra il vetrino dell’esistenza, il dialogo si trasforma lentamente in un monologo che Lavia interpreta con una composta forza, con una tensione ordinata. Anche i movimenti scenici dei due interpreti – a fare il pacifico avventore c’è un bravo Michele Demaria – da orizzontali, si verticalizzano, l’Uomo sovrasta l’altro anche fisicamente, il primo in piedi, il secondo seduto. Questa è matematica della messinscena scritta all’interno di una scenografia maestosa di Alessandro Camera: una sala d’attesa con una struttura portante in legno di pioppo che regge le vetrate della stazione, delle lunghe panchine e un pavimento in abete decorato a motivi geometrici. Il teatro per Lavia è grandiosità, soprattutto quando si mette in scena l’imponente avventura del morire. Dalle vetrate si vede passare l’ombra della donna, così dolce quando si finisce nelle sue braccia, letale quando si cade nelle sue mani.

Marcantonio Lucidi,
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