“Amletò” di Giancarlo Sepe alla Comunità

Je suis seul solette

Giancarlo Sepe è un raro esempio di regista che sa usare il lavoro intellettuale – nozionistico analitico, categorizzante – a fini puramente artistici. Mai si lascia tentare dagli stolti piaceri della pedanteria e della pedagogia del “messaggio” perché sa che l’aristocrazia dello spirito è nell’arte. Amletò, con l’accento sulla “o”, è uno spettacolo che parte dall’idea che il dramma dialettico per antonomasia di Shakespeare superava, negli anni in cui fu scritto (tra il 1600 e il 1601), la distinzione allora in vigore fra commedia e tragedia.
Nel teatro classico e rinascimentale, il dramma è rappresentazione di un conflitto. Le sue ragioni e finalità sono ben definite: nella commedia il conseguimento a lieto fine dell’amore; nella tragedia la lotta è la conquista del potere, dello Stato, anche dell’amore, e l’epilogo è la morte. In Amleto non è più in scena il conflitto fra forze antagoniste che vogliono distruggersi a vicenda, ma un’indagine sulla natura di queste forze e quindi in sintesi sulla natura dell’agire umano. La meccanica dei fatti è conseguenza secondaria del funzionamento misterioso e complesso degli uomini. Sepe per il suo spettacolo prende questo aspetto centrale del dramma shakespeariano che mette in scena un’inchiesta e non una conquista.
Sepe ambienta il suo Amletò nella Francia degli anni Trenta, a ridosso della seconda guerra mondiale. Shakespeare scrive l’Amleto negli anni del declino fisico e morale della regina Elisabetta, al momento della crisi politica, delle incertezze sulla successione dinastica, con i conseguenti intrighi di palazzo e la disintegrazione delle strutture socio-economiche dell’Inghilterra dei Tudor. Quindi il regista trasferisce il tramonto dell’era elisabettiana nella crisi francese ed europea degli anni Trenta per parlare dell’oggi. Amletò è uno spettacolo sulla nostra crisi di civiltà senza che mai venga esplicitata, che è poi il cuore dell’arte teatrale: un discorso sulla polis che fa finta di dissertare d’altro. Per questo che Sepe è un grande regista. Poi c’è la sua capacità visionaria, la sua arte di costruire immagini teatrali. Lo spettacolo è una sarabanda, una scatola magica da cui escono trasfigurati Amleto, Ofelia, Claudio, Gertrude, Laerte, il Re, Rosencrantz e Guildenstern. Pantomimici, lunari, stralunati, con la biacca sul volto, surreali, sono dei personaggi alla Jean Cocteau, sono Gli sposi della Torre Eiffel e I parenti terribili, sono la famiglia del castello di Elsinore che su una macchina costruita con due sedie, due fari e quattro tubolari di metallo scappa dai nazisti e finisce a Parigi all’Hôtel du Nord sul canal Saint-Martin. Hôtel du Nord è un film del ’38 di Marcel Carné ambientato in un albergo frequentato da aspiranti suicidi, prostitute, prosseneti, sicari, poliziotti. La storia di Amletò e quella di Carné si fondono: il principe non vuole più vendicare la morte del padre e chiede a Ofelia di suicidarsi con lui come i due amanti del film.
Ma tutto questo organizzatissimo disordine, le entrate e uscite dagli armadi come d’un Feydeau caduto in un quadro di Magritte, questo teatro che diventa cinema che diventa balletto che diventa pantomima, sta dentro un’altra confusione controllata, una fusione fra italiano e francese, “Je suis seule solette”, “Je suis arrabbié”, che strania tutto lo spettacolo e, inaspettatamente, gli dà un’atmosfera da Europa finis terrae, come in certi giorni davanti al canal Saint-Martin, d’inverno, all’imbrunire, mentre pioviggina e si pensa alla fine del mondo, un colpo di teatro che certamente avverrà, accompagnato da una pantomima di Jean-Louis Barrault sulle canzoni di Joséphine Baker e Fréhel, al secolo Marguerite Boulc’h. Infatti arriva la guerra che svuota l’albergo. Amleto da solo si aggira fra valigie e maschere abbandonate per terra. L’Hôtel du Nord esiste ancora a Parigi. L’insegna manca dell’accento circonflesso sulla “o”. In scena un gruppo di attori impeccabile.
Al teatro La Comunità di Roma fino al 19 aprile 2015.

Marcantonio Lucidi,
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