“Altrove” scritto e diretto da Paola Ponti, interpretato da Massimo De Lorenzo, Constance Ponti e Mario Russo. Al Piccolo Eliseo di Roma
Alla periferia delle nuvole
Altrove di Paola Ponti al Piccolo Eliseo è uno spettacolo che si può vedere da due lati: uno più poetico e l’altro squisitamente teatrale. O si accoglie l’invito implicito dell’autrice a lasciarsi andare, ad apprezzare l’offerta dei suoi personaggi, ad affezionarsi a un giovane spacciatore che in un giardinetto di periferia romana si mette a suonare il flauto; oppure si sta più attenti al fatto teatrale, ad alcune manchevolezze, a certi passaggi montati da una mano registica non del tutto sicura e abile.
Sguardo sentimentale, occhio tecnico: allo spettatore, alla sua indole, sta la scelta fra il piacere di abbandonarsi a uno spettacolo aggraziato e la severità d’osservazione d’una messinscena firmata dall’autrice stessa alla sua prima regia che non esprime tutte le potenzialità del testo. Per esempio: perché le luci si abbassano fino alla semioscurità quando il figlio spacciatore e il padre, anche lui un piccolo delinquente, incominciano a battersi? Forse perché attenuare, velare, quasi nascondere aiuta a produrre per contrasto un effetto poetico di intensificazione del significato. Ma questo artificio, che potrebbe avvicinarsi alla figura retorica dell’eufemismo, trova una sua verità scenica se tutto l’allestimento è esteticamente coerente in tal senso e si esprime per sottrazione. La sottrazione è un’operazione raffinata, togliere è un’arte, la scultura procede per eliminazione del marmo in eccesso che nasconde la figura. L’impressione è che Ponti regista non si sia distanziata abbastanza da Ponti drammaturga e abbia messo in scena conservando nella mente le immagini che aveva mentre scriveva. E più che teatrali queste sono immagini poetiche perché il testo è sostanzialmente tale, anche se per fortuna esprime un’azione. Non è semplice fare poesia in azione e il tentativo ha il suo fascino indipendentemente dal risultato complessivo perché ci sono alcuni momenti, soprattutto nella prima parte, nel dialogo fra padre e figlio, pieni di una misericordia sottile, non retorica ma ironica, su queste ombre umane che abitano i bassifondi.
Poi scatta una trovata che apre una vena surreale: mentre i due balordi armati di pistola stanno progettando un agguato, entra in scena un personaggio a prima vista senza senso in quella situazione, una ragazza francese che si rivelerà anch’essa una banlieusarde, cresciuta nei quartieri esterni di Parigi. Julie è leggera, aerea, conosce il segreto di trasformare la pesantezza della vita in forza di elevazione e meriterebbe il neologismo di onirofora, portatrice di sogni. Appare in un luogo dove la visione di un’esistenza altra, la possibilità di un altrove, la poetica speme paiono incongrue come una giornata di primavera a un ergastolano. Però le sbarre della cella potrebbero essere leggermente troppo larghe, a chi suona il flauto forse è data una via di fuga e lei lo fa capire al ragazzo. Magari chissà, uno sforzo, una contorsione, un magnifico e supremo atto di volontà, un torrente di speranza che inonda l’anima, lo scioglierebbero dalla catena di un presente di ferro. Il padre cinquantenne neanche concepisce la nostalgia di ignoti mondi di umanità, la bellezza è un paese esotico, forse fantastico, una città sulle nuvole come la Nubicuculia immaginata da Aristofane ne Gli uccelli, l’unica realtà è criminale, la sola navigazione per l’uomo è in pozze di fango. Disprezza il sogno, persino lo teme perché la sua vita ha senso solamente se nessun altrove è possibile. E sarà perduto.
La metafora è chiara e non riguarda soltanto il conflitto generazionale: per la liberazione e la ricostruzione della civiltà è necessario essere almeno in due, e non per forza in termini amorosi, ma sul piano della volontà e della condivisione indicato dall’irreale realismo di Julie. Perché tutto è possibile, persino la fuga impossibile. Il sogno della volontà risveglia dal sonno della ragione. È questione d’essere nave che strappa le cime assicurate alle bitte per navigare finalmente altrove in un grande sbuffo di libertà, è questione di abbandonare la pesantezza e pensare la levità.
Lieve e fascinosa è la Julie di Constance Ponti, anima forestiera dall’italiano bagnato di accento francese e attraversato da onde di “erre” mosce. Attore di evidenti mezzi è Massimo De Lorenzo che fa il padre, un artista veloce, elastico, abile nei cambi di registro interpretativo, dotato di gran ritmo, un tipo di attore esuberante che però dà l’impressione di necessitare di una regia esperta se si vuole evitare che prenda la parte e la porti dove vuole lui, dove l’ispirazione della sera lo conduce. E non sempre nel punto giusto. Mario Russo fa del figlio un carattere chiaro, netto, un po’ troppo definito, perdendo così nel suo rapporto con Julie certi chiaroscuri che il testo sembra suggerire. Ma qui è la regia di Paola Ponti alla sua prima esperienza in quel mestiere complicato che è la direzione degli attori a mancare dell’astuzia risolutrice di alcuni squilibri nelle relazioni fra i personaggi. L’astuzia a teatro trasforma l’inganno in verità.