“Vecchi tempi” di Harold Pinter, regia di Pippo Di Marca, con Fabrizio Croci, Francesca Fava e Anna Paola Vellaccio. Al teatro Palladium di Roma
Le idee e le gambe degli attori
Nessun uomo va bene per tutte le donne così come nessun regista è adatto ad ogni drammaturgia. Il miglior regista italiano del Novecento, Giorgio Strehler, che non sbagliava uno spettacolo, non ha mai fatto l’Amleto. Pippo Di Marca ha allestito al Palladium di Roma un Pinter, Vecchi tempi.
Deeley e Kat, che vivono in una casa vicino al mare, ospitano a cena una vecchia amica di lei, Anna, che lui non conosce. Le due donne non si vedono da vent’anni ma sono state molto amiche in gioventù. La stanza pinteriana in cui si svolge l’azione ricorda un po’ l’ambiente claustrofobico di A porte chiuse di Jean-Paul Sartre dove “L’inferno sono gli altri”. Qui invece l’inferno è la memoria. Invece di costruire, il passato demolisce. La realtà delle cose, nel procedere del dramma, si sfarina, perde di senso e di verità, i ricordi mutano, le relazioni si fanno ambigue, inclassificabili, inammissibili. Una vera sfida per gli attori.
Questa messinscena è un caso in cui le note di regia sono molto più interessanti dello spettacolo e qui viene il primo dubbio, ossia che Di Marca, un grande chierico del teatro e da sempre un regista di elevata forza visionaria, abbia preso il testo di Pinter dal lato intellettuale piuttosto che artistico. Si avverte nel procedere dello spettacolo tutto il funzionamento del suo pensiero logico-razionale ma non si sente l’impalpabile eppure densa necessità. Si vede la strategia di comunicazione ma non si intuisce la volontà espressiva. Alla fine della rappresentazione la domanda è delle più semplici: perché ha fatto Vecchi tempi? Nelle sue note Di Marca scrive: “…è sull’opera, sulle parole, (pause e didascalie comprese), che mi sono concentrato. Rispettandole fino all’ultima virgola: il che, detto da me, è quasi un controsenso”. In effetti questo puntiglio filologico, rafforzato all’inizio e alla fine dello spettacolo dalla voce fuori scena del regista che recita le didascalie, non gli appartiene, lui in genere cura con meticolosa perizia la visualità. Un artista ha il diritto di sperimentare non soltanto sull’arte, come ha sempre fatto Di Marca, ma anche su se stesso. Naturalmente per fare questo genere di teatro “con uno sguardo da archeologo, e dunque “scavando”, come annota Di Marca, è necessario un certo tipo di interprete e di direzione degli attori. Perché anche chi va in scena deve scavare nel momento stesso in cui ci sta e non solo durante le prove. Invece Fabrizio Croci, Francesca Fava e Anna Paola Vellaccio sviluppano ciascuno a suo modo un’esecuzione meccanica che poco ha da spartire con il concetto di interpretazione. Il testo di Pinter è in sostanza un testo antiborghese sulla middle class britannica. Meccanizzare la recitazione virgola dopo virgola, punto dopo punto, potrebbe essere in effetti un modo efficace di criticare quel mondo, ma il problema resta sempre l’intenzionalità, o meglio la distanza fra ciò che si fa e perché lo si fa. Come quando uno scenografo per mostrare lo squallore di un ambiente inventa una scenografia squallida o per indicare il disordine mette roba a casaccio (e niente in scena deve essere più ordinato del caos), così un attore a cui viene chiesta una recitazione meccanica non ha da essere un attore meccanico ma un attore che interpreta la meccanicità. Invece qui sembra di vedere in azione congegni recitativi e, soprattutto nel caso di Croci, non particolarmente funzionanti. Situazione che aggrava i risultati di uno spettacolo che a forza di cercare il significato nella punteggiatura e nelle didascalie, non mostra più il rapporto fra i tre personaggi ma fra gli attori e le virgole.
La distanza fra il fare e la ragione del fare è critica ma anche divertimento, comunicazione con il pubblico e l’impressione è che i tre sul palco non si divertano perché Di Marca chiede loro qualcosa a cui non sono abituati o che non sanno fare. O ancora che Di Marca stesso ha avuto difficoltà a spiegare e impostare in sede di direzione degli attori. Siccome però il regista possiede un grande talento visuale, tutto quel bianco in scena, i divani e la poltrona bianchi, il tipo di illuminazione fredda, danno un senso di gelo e di ieraticità che si confà a “Vecchi tempi”. Il bianco però è difficile – i pittori lo sanno bene – contiene tutti i colori dello spettro visibile, quindi significa solo se stesso e deve in qualche modo “parlare” attraverso un altro segno, magari interpretativo. Ma la recitazione degli attori è nera, intendendo per nero il colore privo di colori. Né si può osservare una relazione fra la scenografia e i costumi molto anonimi, che – salvo la mise bianca di Francesca Fava – sembrano scelti più per vestire gli interpreti che per caratterizzare i personaggi, per esempio nella loro freddezza e lontananza. Tutto lo spettacolo sembra un “penso ma non sento”, un “voglio ma non desidero”, una ricerca su testo e visione che non contempla artisticamente l’essere umano, ossia l’attore, ma lo subisce ed invece si sforza intellettualmente di definire concetti. Tuttavia in nessun luogo come a teatro le idee camminano sulle gambe degli uomini.