“Il giuoco delle parti”, adattamento da Luigi Pirandello, regia di Roberto Valerio, con Umberto Orsini. All’Eliseo di Roma
Lo standard del successo
Umberto Orsini è tornato all’Eliseo di Roma con un testo da lui frequentato varie volte, Il giuoco delle parti di Luigi Pirandello in un adattamento di Valerio – Orsini – Balò di cui francamente non si sentiva il bisogno, regia di Roberto Valerio, in scena anche Alvia Reale e Totò Onnis. Il ruolo di Leone Gala è un cavallo di battaglia di Orsini e rappresenta forse una buona occasione per capire la probabile vera natura artistica di questo attore che ha avuto una lunghissima, fortunatissima e prestigiosa carriera teatrale, cinematografica e televisiva.
Orsini è nato nel 1934 (a Novara), aveva 21 anni nel ’55 ed appartiene quindi a una generazione che se ha duramente pagato la guerra con la propria infanzia e prima giovinezza, ha poi avuto dei vantaggi straordinari da tre fattori: la ricostruzione, il boom economico e, purtroppo e senza nessuna colpa, gli enormi spazi di opportunità che si aprirono ai sopravvissuti di un conflitto che aveva decimato la popolazione. Tutti coloro che c’erano furono chiamati a partecipare ai tempi nuovi. È stato possibile, e con relativa facilità, per molti esponenti di quella generazione assumere nel mondo della scena italiana un peso legittimo. Legittimo perché comunque frutto dalla propria biografia professionale, per quanto favorita anche dalla situazione storica oltre che dall’impegno e dalla fatica. Si sono però create rendite di posizione praticamente inamovibili che hanno contribuito ad ostacolare il ricambio generazionale. I nuovi talenti si sono inoltre dovuti confrontare con una concorrenza indurita dall’affollamento conseguente al baby-boom e a una scolarizzazione di massa che ha immesso sul mercato del lavoro artistico e intellettuale moltitudini non sempre ben formate e giustificate nelle loro ambizioni. Molti di coloro che in questa situazione ce l’hanno fatta, per effettiva bravura e spesso per scaltrezza, compromessi, capacità manovriera, hanno costituito, anche per difendere i vantaggi acquisiti, dei veri e propri clan, secondo il vecchio meccanismo del tribalismo amorale italiano, oppure si sono confrontati e accordati con le baronie teatrali già insediate, quando non vi si sono assoggettati. Le conseguenze sono state molteplici: fra le tante, ambienti artistici chiusi, sempre più stantii e claustrofobici; connivenze, patti con la politica, scambi di favori; una progressiva asfissia della scena italiana; soprattutto un inevitabile scadimento generale della qualità artistica, fatte salve le eccezioni, e un affollamento sui palcoscenici nazionali di gente mediocre ma utile al sistema che ha vieppiù limitato il riconoscimento e l’affermazione dei talenti. Si è quindi assistito a una progressiva alienazione del teatro italiano dal dibattito pubblico e dal discorso collettivo sulla polis. Tutto ciò ha contribuito a una sorta di analfabetismo teatrale del pubblico il quale, anche a causa del degrado antropologico dell’ultimo quarto di secolo e di una generale decadenza del mondo culturale, non possiede più gli strumenti per valutare la reale qualità di un attore e di uno spettacolo. Molto più esperti degli spettatori di oggi erano i plebei lanciatori di scarpe e di gatti morti degli anni Trenta. Lanciavano a ragion veduta. Attualmente sono quasi ignorati i parametri di valutazione di un artista della scena, quindi nella notte tutte le vacche sono nere.
Tuttavia ad osservare un signor professionista come Umberto Orsini nel ruolo di Leone Gala, che egli ha sulla punta delle dita, ci si chiede se su di lui non ci sia stato un possibile malinteso. Un malinteso fra arte e mestiere. Fra interpretazione e ripetizione. Fra efficacia ed efficienza. Perché lasciano perplessi la mancanza di elasticità della sua prova, la sua difficoltà a muovere il personaggio e farlo evolvere, la fissità delle sue abitudini attorali che lo rendono efficiente senza efficacia, un monoblocco recitativo utile ad ogni bisogna, sia che faccia Pirandello sia che affronti, tanto per fare un esempio fra i mille della sua carriera, il Brecht de La resistibile ascesa di Arturo Ui. La sensazione è che Orsini non interpreti Leone Gala ma lo reciti all’interno di un suo canone sempre uguale ma abbastanza affinato da generare l’apparenza di un’interpretazione. Preciso e puntuale come scrivevano i vecchi critici teatrali, l’impressione è che in Orsini alberghi un abile ripetitore vestito credibilmente degli abiti di un interprete.
Tuttavia, se si intende respingere l’ipotesi che Orsini sia un comprimario di successo assurto ai ruoli protagonisti, esiste ancora una distanza fra prim’attore e grande attore: il grande attore comprende il prim’attore ma il contrario non sempre si dà. Si può diventare primi senza essere grandi in virtù della contingenza storica, della fortuna, degli incontri, della capacità di organizzare e indirizzare la propria carriera, anche di una capacità tecnica che però da sola, soprattutto quando standardizzata, non rivela l’artista unico, originale, inconfondibile. Neanche il carisma assicura una grandezza, Rossella Falk era una prim’attrice dal valore artistico a dir poco discutibile e sarebbe stata una comprimaria se non avesse avuto l’unico suo vero talento della presenza scenica. Ecco, in questo senso Orsini, dalla carriera lunga oltre sessant’anni, può essere visto come un attore per secondi ruoli con un grande talento, quello di aver saputo comunque accreditarsi quale prim’attore. Ma il grande attore non rientra in uno standard e si mostra così com’è nella sua spontanea evidenza: “La rosa è senza un perché, fiorisce perché fiorisce”, scriveva il mistico secentesco Angelus Silesius.