“Antonio e Cleopatra” di William Shakespeare, traduzione e adattamento di Nadia Fusini e di Valter Malosti anche regista e interprete. Con Anna Della Rosa. Al Quirino di Roma

Antonio e Cleopatra ph Tommaso Le Pera 008 (1)

Il naso di Cleopatra e la faccia del mondo

Quando Anna Della Rosa nel ruolo di Cleopatra pronuncia sul cadavere di Marco Antonio le seguenti parole: “Il suo volto era come il cielo, e in esso v’erano un sole e una luna che nel loro corso illuminavano la piccola O che è la terra…”, si vede perfettamente in cosa consistono l’arte e la bravura dell’attrice. In quella O lei mette la piccolezza del mondo di fronte alla grandezza della tragedia, davanti all’infinitezza della sua anima dolente pone lo zero della Storia, l’insignificanza di tutti gli altri morti da Alessandro Magno a Napoleone, giganti solo per chi non conosce la grandezza dell’uomo cadavere nelle braccia di Cleopatra.
Antonio e Cleopatra andato in scena al Quirino di Roma con la regia di Valter Malosti anche interprete nel ruolo maschile del titolo, si regge sulla grande prova d’attrice di Anna Della Rosa. È lei che a piacimento fa del capolavoro di Shakespeare di volta in volta una tragedia dell’amore, o del potere, o della sconfitta, dell’eros, della morte, delle donne e degli uomini. Gli altri personaggi, quasi tutti maschili, paiono officianti nel tempio teatrale della dea egizia, anche Marco Antonio. Cleopatra in punto di morte: “Io sono fuoco e aria: i miei altri elementi li lascio a una forma di vita inferiore”. Per far suonare naturali tali parole, senza che salgano come palloncini gonfiati d’una tronfia retorica e neppure ruzzolino nel polveraio d’un bla bla classicheggiante, s’ha da essere cleopatre della scena. La franchezza non si raffrena a dire che senza Anna Della Rosa lo spettacolo sarebbe come un carro da guerra senza cavalli. E bisogna al contempo notare che Malosti sia da regista che da interprete in nulla ostacola l’attrice e anzi le organizza un circo massimo teatrale tutto per lei, conscio della sua bravura ché caput mundi pare non Roma ma Alessandria d’Egitto, stando la gloria mundi laddove Cleopatra si trova. Così Enobarbo nell’originale dice: “… e Antonio, nel suo trono nel foro, rimasto solo, zufolava nell’aria; e perfino l’aria, se non fosse stato per orrore del vuoto, sarebbe volata ad ammirare Cleopatra, creando un vuoto nella natura”.
Le iperboli del testo non sono facili da pronunciare e nemmeno da ricevere. Enobarbo è Il poeta, commentatore della storia, ruolo affidato a Danilo Nigrelli che lo restituisce con bel mestiere malgrado la regia lo tenga un po’ discosto, presa come sembra, al pari degli spettatori,  più da Cleopatra che dalla messinscena. Vien da pensare che la regina ha salvato lo spettacolo e lo ha perduto, come a una sovrana capita di fare. Se Nigrelli sa come muoversi all’interno dell’egemonia della protagonista camuffata da diarchia scenica (Malosti – Della Rosa), non altrettanto può dirsi di Dario Battaglia nella parte di Cesare. Qui la regia poco c’entra, l’attore è teso, scandisce battute rigide senza donare un’idea del personaggio, sta catafratto in cima all’elmo di Cesare come se avesse paura di cadere. Tuttavia la messinscena consegue da un adattamento di Nadia Fusini e dello stesso Malosti, i quali hanno ridotto a pochi personaggi un dramma originale che prevede sessantatré ruoli parlati. Una moltitudine di figure che appaiono in brevi scene per poi scomparire e che donano a una storia di coppia il passo della grande Storia. D’altronde lo dice Pascal: “Se il naso ci Cleopatra fosse stato più corto, la faccia del mondo sarebbe cambiata”. Per questa moltitudine non v’è bisogno di più di diciotto – venti attori, non una folla, che però in questo allestimento sono ridotti a dodici. Ora, le esigenze economiche sono tiranne, i cinque enti coproduttori – fra teatri stabili e istituzioni teatrali pubbliche – ottimizzano le risorse finanziarie anche a scapito degli attori (buste paga, oneri previdenziali, diarie e varie). I tagli non eliminano solo delle parti ma parti di parti, squinternano il dramma, lo squilibrano, lo sminuiscono. La domanda è: se non sono gli stabili a fare lavorare gli attori, chi li deve fare lavorare? Se non sono gli stabili a mettere soldi su spettacoli di tradizione, rispettosi dei testi e attenti alla storia del teatro, chi li deve allestire?  Sarebbe interessante vedere come reagirebbero i melomani e i loggionisti dei teatri d’opera di fronte a una mutilazione dell’Aida, via il Faraone, via la soprano che fa la sacerdotessa e ad Amonasro si dia mezza parte; tagliare l’organico orchestrale, eliminare un po’ di flauti e tutti i clarinetti ma lasciare i corni altrimenti porta male. Il punto non è venerare l’originale e idolatrare la filologia ma tenere conto del fatto che il teatro non s’identifica con un plot, non racconta solo una trama ma un mondo. E non tutti gli attori sopravvivono alle amputazioni. Per fortuna c’è Anna Della Rosa.
In scena anche Massimo Verdastro, Paolo Giangrasso, Noemi Grasso, Ivan Graziano, Dario Guidi, Flavio Pieralice, Gabriele Rametta, Carla Vukmirovic. Costumi di Carlo Poggioli, scene di Margherita Palli.

Marcantonio Lucidi,
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