“A torto o a ragione” di Ronald Harwood, regia di Giovanni Anfuso, con Stefano Santospago, Simone Toni, Giampiero Cicciò. All’India di Roma
Auschwitz non è una sinfonia di Beethoven
Hanno scritto nel programma di sala che Wilhelm Furtwängler è stato forse il più grande direttore d’orchestra di tutti i tempi. Forse. La rivista Classic voice nel dicembre 2011 pubblicò un sondaggio in cui il più grande risultava Carlos Kleiber, almeno secondo i suoi colleghi. Possibile che Furtwängler paghi una comprensibile disapprovazione per la sua ambiguità nei rapporti con Satana, come nello spettacolo viene chiamato Hitler, e con i suoi servi. Il noto dramma del ’95 di Ronald Harwood A torto o a ragione, diretto all’India di Roma da Giovanni Anfuso, tratta proprio questo argomento: alla fine della guerra, nella Berlino occupata dagli Alleati, il direttore d’orchestra più apprezzato dal Führer e dai suoi gerarchi subisce nel contesto del processo di denazificazione una serie di interrogatori condotti dal maggiore dell’esercito americano Steve Arnold deciso a incastrarlo.
Il tema di fondo però è il seguente (altrimenti il testo non sarebbe così interessante): l’artista è o non è coinvolto nel suo tempo e l’arte è indipendente dalla politica oppure no? In un importante saggio del 1927, Il tradimento dei chierici, il filosofo Julien Benda scrisse che i valori clericali (intendendo intellettuali) – la giustizia, la verità, la ragione – possiedono tre caratteristiche: sono statici, disinteressati, razionali. Benda se la prende con fascisti e nazionalisti, in particolare francesi e tedeschi, ma anche con i comunisti e gli scrittori “engagés” ai quali rimprovera l’ipocrisia di dichiararsi al servizio di questi valori quando invece servono i partiti e le ideologie. Secondo Benda, il chierico libero e disinteressato che si esercita nell’indipendenza della ragione può impegnarsi in politica, ma solo in nome dei valori clericali e non a sostegno di un partito e di un’ideologia. In questa visione etica e morale, non è possibile giustificare Furtwängler: il suo percorso negli anni del nazismo gli impedisce di rientrare nel novero dei chierici perbene. L’autore di A torto o a ragione, il cui titolo originale è Taking sides (schierarsi, prendere posizione), sembra d’accordo nel rifiuto di assolvere il famoso direttore d’orchestra. Per arrivare però a questo punto, ch’è verso il finale e sta nel monologo del maggiore Arnold, si passa attraverso momenti in cui l’accusato sembra avere la meglio sull’accusatore. Le prove a suo carico sono poche, una stretta di mano del Führer, la direzione della Nona di Beethoven nel 1942 per il compleanno del dittatore (eseguita però il giorno prima), il rifiuto di lasciare la Germania e i Berliner Philarmoniker per difendere la musica e la cultura tedesche dai barbari nazisti.
L’ufficiale americano è addirittura antipatico, urla, sbatte i pugni sul tavolo, tratta male i suoi due collaboratori, la segretaria Emmi Straube e il timido tenente Willis che parteggia per l’accusato. Simone Toni interprete del maggiore porta il personaggio fin quasi alla spregevolezza, viene addirittura il sospetto che attraverso di lui si voglia mettere in cattiva luce i liberatori dell’Europa dal nazifascismo. Il soldato americano, assicuratore nella vita civile, non capisce il raffinato musicista tedesco, vede in lui solo corruzione, collaborazionismo, infamia, carrierismo.
Invece Anfuso tiene il dramma in equilibrio fino alla parte finale che ribalta le cose e le rimette a posto. Di fronte ad Auschwitz, alle camere a gas, ai milioni di morti, all’inferno che si è spalancato sotto i piedi degli europei, le giustificazioni di Furtwängler sono ridicole, le sue iniziative per salvare i musicisti ebrei, la cultura tedesca e l’autonomia dell’arte dalla politica appaiono un piedistallo per l’edificazione della propria grandezza. L’autodifesa puzza come cavoli messi a bollire in una casa di Auschwitz per coprire il fetore immondo che esce dalle ciminiere dei forni crematori.
Lo scontro fra il militare e il musicista è un gioco a due, iscritto però in un collettivo di altri tre attori e comporta fra Simone Toni e Stefano Santospago (nel ruolo di Furtwängler) affiatamento in scena e una gran dose di mestiere. Si tratta di servire il proprio personaggio con la generosità di pensare anche al lavoro del collega nei passaggi delicati di una situazione interpretativamente impegnativa. Attorno a loro si muovono Roberta Catanese che di Emmi Straube fa sentire la tensione interiore di una ragazza dolce costretta ad attraversare eventi che danneggerebbero i nervi di chiunque. Helmut Rode, secondo violino dei Berliner, è affidato a Giampiero Cicciò che caratterizza il personaggio come un uomo abietto e servile, un codardo, un traditore guidato da un istinto di sopravvivenza subumano. Però grida una verità terribile: è impossibile a chi non ne ha esperienza capire cosa significa vivere sotto la dittatura di Satana. Anche la signora Tamara Sachs, vedova di un musicista che Furtwängler salvò dagli artigli dei nazisti, è restituita con mestiere da Liliana Randi: scossa dalla grande Storia, la povera donna, e dalla sua piccola storia.
Scene di Andrea Taddei che organizza un ufficio disordinato, sconvolto come le menti dei personaggi, pieno di carte, classificatori, tavoli, sedie, roba accatastata, un giradischi e lo mette a disposizione di una regia curata, attenta al testo, ai suoi significati e alle volute ambiguità nel rapporto fra il bene e il male.