“La morte a Venezia”, spettacolo liberamente ispirato all’opera di Thomas Mann, drammaturgia e regia di Liv Ferracchiati in scena assieme ad Alice Raffaelli. All’India di Roma

La morte a Venezia

Meglio mostrare che dimostrare

Bisogna rassegnarsi a una verità grottesca: il teatro è reazionario e per renderlo progressista bisogna evitare di farlo. Basta leggere le note dello spettacolo scritto e diretto da Liv Ferracchiati all’India di Roma: “Non un adattamento teatrale de La morte a Venezia, ma un percorso scenico liberamente ispirato al romanzo che combina tre diversi linguaggi: parola, danza e video”. Che nessuno ci trovi del teatro, per carità, in questo spettacolo e difatti la rappresentazione si compone di una (brava) danzatrice, Alice Raffaelli, ripresa da Ferracchiati con una telecamera mobile che proietta le immagini su uno schermo mentre una voce registrata per tre quarti d’ora dice cose del tipo: “I tuoi occhi color grigio di alba, color grigio di alba i tuoi occhi”, “Sei a meno di una decina di metri. A meno di una decina di metri da me”. Il trucchetto retorico della ripetizione renderebbe suggestivamente sospesa l’atmosfera, vorrebbe dire l’indicibile e reincarnare la disincarnata parola incarnata in una semantica scarnificata ma carnosa. È il gingillo di chi ha poco da dire e inzeppa il discorso di reiterazioni come il barista mette il carciofino nel tramezzino per farlo sembrare più pieno. Quando la registrazione pare rivolgersi al pubblico chiedendo: “Siete più gente da libri di cavalli o gente da libri di Schiller?”, viene voglia di rispondere che questa è una serata da ippica.
La morte a Venezia è il titolo dello spettacolo ma del capolavoro di Thomas Mann c’è pochino – potrebbe essere una Morte a Pomezia, a Lamezia, a La Spezia – salvo la ripetizione dei nomi dei due protagonisti, “Gustav von Aschenbach, von Aschenbach, von Aschenbach, von Aschenbach” e Tadzio, Tadzio.
Questo tipo di scena è progressista (quasi come le magnifiche sorti) in quanto cerca, cerca, cerca, trova il nulla teatrale di una dimostrazione e mai sospende la ricerca. Dal dimostrare in luogo del mostrare deriva una sterilità che si sforza a un parto. E genera autorappresentazioni adorate dagli amanti dei posti liberi in platea, la tribù della sinistra left lift che s’innalza all’attico del pensiero, all’intelligenza superiore interdetta al comprendonio del pubblico, criptica ed elitaria, dispeptica e solitaria, luccicante di ricchezza intellettuale come la latta dipinta di vernice dorata.
Quando a tre quarti della rappresentazione, la monotonia vocale di Ferracchiati (nel frattempo andato in giro con la telecamera a riprendere la danzatrice) sostituisce il tono ultrapiatto come un orologio Jaeger-LeCoultre della registrazione, si sente l’alta parola della filosofia risuonare per tutto il teatro: “Il logos – dice l’autore dello spettacolo – il fuoco che governa la realtà”. Il Verbo luminoso sale fino ai proiettori. E fu subito Wittgenstein, il filosofo a cui un buon studente di liceo classico può far dire tutto. Eccola, inevitabile come il cielo stellato di Kant, l’ultima proposizione del Tractatus logico-philosophicus: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Ludwig über alles: “La parte più importante di ciò che ho scritto – afferma il videoamatore in scena – è ciò che non ho saputo dire”. Salvifica intelligenza altrui. Nell’ottobre del 1919, il filosofo austriaco manda all’editore von Ficker il manoscritto del Tractatus e in una lettera spiega: “In effetti io volevo scrivere che il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante”. Anche lo spettacolo di Ferracchiati consiste di due parti: il teatro è nella seconda.

Marcantonio Lucidi,
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