“Elena, la matta” di Elisabetta Fiorito, regia di Giancarlo Nicoletti che dirige Paola Minaccioni. Alla Sala Umberto di Roma
Chi è pazzo può essere antifascista
ma chi è antifascista non è pazzo
Fra i vari impegni che un regista prima o poi deve affrontare nell’esercizio del suo mestiere, c’è anche il domatore di belve da palcoscenico. D’altronde proprio per tale funzione la regia è nata e si è imposta fra Otto e Novecento, per salvaguardare il grande attore che, trascinato dalla propria onnipotenza mattatorale, aveva, soprattutto in Italia, abbattuto ogni regola teatrale. In questo caso la tigre della ribalta è Paola Minaccioni e il domatore Giancarlo Nicoletti che alla Sala Umberto di Roma hanno offerto uno spettacolo applauditissimo, Elena, la matta.
Liberamente ispirato al libro di Gaetano Petraglia La matta di piazza Giudia e scritto da Elisabetta Fiorito, il monologo mette in scena un personaggio non dimenticato in città, Elena Di Porto, la famosa ebrea che il 10 settembre del ‘43 combatté a Porta San Paolo contro i tedeschi e il 16 ottobre durante il rastrellamento del Ghetto salì di propria volontà sul camion dei maiali nazisti per non lasciare soli i nipoti che erano stati presi. Morirà ad Auschwitz.
Alla fine dello spettacolo, perfetto per i tempi e i pericoli che corriamo, viene naturale pensare che i fascisti – post fascisti, trumpisti, suprematisti, estremisti – restano eternamente uguali a se stessi, di qualsiasi nazionalità siano, hanno sempre una gran voglia di commettere stragi e di deportare la gente. I fascisti non cambiano mai, quello che cambia è la Storia.
Il personaggio di Elena è molto intenso: di carattere indomito, non sopporta i soprusi a sé e al prossimo, si ribella al marito e gli tira una coltellata, si ribella ai fascisti e ne prende uno a testate, finisce quattro volte al manicomio di Santa Maria della Pietà, va in giro ad avvertire gli ebrei dell’arrivo delle squadracce, il regime la sbatte al confino in vari paesini del Sud e del Centro Italia. Il 9 settembre del ’43 assalta un’armeria a via Monterone assieme ad altri cento correligionari e porta via settanta fucili da caccia. Tutt’altro che pazza, un’ebrea antifascista coraggiosa e pericolosa per i servi del Puzzone, del Testone, del Mascella, della Giulietta di Palazzo Venezia. Nello spettacolo si ricorda la sera del 15 ottobre ’43, quando Elena incominciò ad urlare come un’invasata in mezzo al Ghetto per avvertire gli ebrei del rastrellamento. Scrisse Giacomo Debenedetti nel suo libro 16 ottobre 1943 che la donna, una Cassandra pazza davvero, in effetti si chiamava Celeste; Vilma invece per Elsa Morante ne La storia.
Come sia, Elena è una donna di forza enorme e la parte va affidata a un’attrice di grande temperamento che però presenta il rischio di debordare, di scatenarsi, spingere la voce, i toni, la recitazionn fino a perdere le pause e i tempi teatrali. È una vitalità che un regista non deve soffocare ma organizzare e modulare di modo che lo spettacolo si distenda, respiri ritmicamente, alterni energia, ferocia, furia a poeticità, dolcezza e persino ironia. Nicoletti ha chiamato due musicisti, il chitarrista Valerio Guaraldi (anche autore lelle composizioni per l’allestimento) e il sassofonista Claudio Giusti di modo che la Minaccioni dialoghi con le musiche, le segua, le riprenda, e li ha collocati su una piattaforma rialzata da cui l’attrice scende e sale. L’ha anche impegnata in rievocazioni di personaggi che Elena incontra durante la sua storia, la prostituta Lola per esempio che arriva in uno dei paesi del confino e scompare poi misteriosamente. La regia ha tracciato linee, movimenti; organizzato scene, passaggi; delimitato spazi e tempi; ha costruito insomma una struttura solida che al contempo liberasse e contenesse la potenza espressiva dell’interprete. Minaccioni allora corre nel monologo come un treno ma su binari precisi e non deraglia mai ma arriva al pubblico con tutto il significato della rappresentazione, con tutta la forza di una femminilità sovversiva, di un antifascismo radicale, di una morale e di un’etica irriducibili che hanno smosso la platea e consegnato l’interprete alla generosità degli applausi. Esiste ancora un pubblico solidamente democratico e fermamente antifascista, lo sappiano i politici, galletti dispotici o anatre da salotto.