“Volpone” di Ben Jonson, regia e adattamento di Carlo Emilio Lerici, con Edoardo Siravo e Francesca Bianco. Teatro Arcobaleno di Roma
Oltre la farsa ma prima della commedia
I fondali dipinti danno un’idea di vecchio romantico teatro da scavalcamontagne, anche il modo di recitare un po’ sopra le righe, persino il pubblico arrivato in pomeridiana la domenica al teatro Arcobaleno di Roma sembra uscito da una cronaca teatrale anni Trenta di Alberto Savinio. Le spalle a mappamondo, l’ansimare profondo, il tossicchiare invernale degli spettatori, qualcuno con la testa reclinata da ruminante alla greppia. La commedia poi, Il volpone di Ben Jonson, contemporaneo di Shakespeare e poeta laureato d’Inghilterra, è di quelle che si danno sempre meno perché ormai celano sotto la loro aria farsesca una delicata nostalgia per un teatro semplice, ingenuo a momenti, che non s’addice più alla nostra scafata società dello spettacolo.
Regia di Carlo Emilio Lerici e interpretazione di Edoardo Siravo nel ruolo del titolo, lo spettacolo è un rimaneggiamento di Larry Gelbart messo in scena due volte con successo a Broadway da Arthur Penn che nel ’76 dirigeva Walter C. Scott e nel 2004 Richard Dreyfuss. S’era dunque già negli anni Settanta sentito il bisogno di dare al testo di Jonson una riverniciatina, una romanella come si dice a Roma, di modernità. Tuttavia adesso che si è arrivati a metà degli anni Venti di questo secolo, la rinfrescata mostra un po’ di muffa anche se a sua volta Lerici ha operato sul copione. In certi casi si sta nel dubbio su cosa sia meglio, se adattare un classico che si è fatto antiquato oppure restare nell’originale da usare come occasione per una veste scenica grandiosa, da gran teatro museale come una galleria di pittori secenteschi. La compagnia però non è d’uno stabile ma privata che ha migrato dalla sua sede, il Belli a Trastevere, perché la ribalta non è abbastanza ampia da contenere i quattordici attori dell’allestimento. Operazione culturalmente commendevole che gli spettatori hanno gratificato di applausi e di una platea esaurita. E il pubblico ha sempre ragione.
Lo spettacolo racconta la beffa surreale del Volpone che si finge un malato agonizzante e del furbo Mosca, un servo da Mandragola di Machiavelli. I due architettano la truffa ai danni di tre citrulli avidi e cattivi più una prostituta ai quali il morituro ha promesso di lasciare la sua immensa eredità. La cupidigia è il vizio che muove l’azione d’un dramma maligno e cinico in cui la meschinità dell’essere umano viene rappresentata con un tono acre e pessimista. L’uomo è un essere basso, nefando, senza qualità, condizione irrimediabile ed è questa visione rigida e tutto sommato monotona che impedisce a Jonson di arrivare al capolavoro e all’altezza del suo contemporaneo Shakespeare. Il volpone tuttavia potrebbe sempre riservare sorprese se trattato in sede di adattamento e messa in scena con lo stesso grado di cinismo e di incredulità riservato al genere umano da Jonson, uno di quegli autori la cui vita dice più delle opere.
La sensazione invece è che regista e attori credano al dramma e lo ritengano uno studio di caratteri, quando invece è un’esposizione di macchiette prive di sfumature a lungo andare telefonate nei comportamenti. Il tentativo di conciliare la farsa e la commedia (che si nota nella prova di Edoardo Siravo), di tentare al contempo la caricatura e l’umorismo (ossia la facoltà di suscitare il riso con umana partecipazione) cade perché nel testo l’umorismo non c’è e lo spettacolo si perde nell’incompiutezza dell’una e dell’altro, finisce in mezzo al guado nell’acqua ferma della prevedibilità, salvo il colpo di scena finale.
Siravo ha il physique du rôle per fare il Volpone e il mestiere per tenersi a galla, Francesca Bianco interpreta Mosca con velocità e asciuttezza, ma rispetto a loro il resto della compagnia lavora sottotono.