“Il giardino dei ciliegi” di Anton Cechov, regia di Leonardo Lidi. Al teatro Vascello di Roma
La marmellata del contemporaneo
Il giardino dei ciliegi di Anton Cechov inizia con la seguente didascalia: “Una stanza che ancora oggi si chiama “dei bambini”. Una delle porte dà nella camera di Anja. È l’alba, presto sorgerà il sole. E già maggio, i ciliegi sono in fiore, ma nel giardino fa ancora freddo, c’è la brina. Le finestre della stanza sono chiuse. Entrano Dunjaša con una candela e Lopachin con un libro in mano”. La messa in scena di Leonardo Lidi al Vascello di Roma si svolge invece in una specie di balera con le sedie di plastica. I personaggi entrano in scena mentre Lopachin canta Ritornerai di Bruno Lauzi.
Se si sente la necessità impellente, irrinunciabile, irrimandabile di modernizzare Cechov (più contemporaneo di molti di noi vivi), vuol dire che non si crede all’universalità dei suoi drammi. Nulla di male, un regista è libero di inventarsi Edipo disk-jockey cocainomane e Giocasta cubista attempata in una discoteca di Cazzago Brabbia, basta che i produttori siano d’accordo e che nessuno tenti di far passare l’operazione per un’opera. Purtroppo però dentro simili trastulli con i classici, si intravvedono generalmente pretese artistiche fondate non su delle idee ma su forzature, su inzeppature coatte di trovate presentate come rinnovamenti originali, moderni anticonformismi. Il progetto è: famolo strano e loderanno il nuovo cechoviano.
Una spettatrice ha osservato alla fine dello spettacolo che un Giardino dei ciliegi siffatto pretende che il pubblico conosca il testo e soprattutto che abbia visto in passato allestimenti grati al genio imperituro di Anton. Ma quasi certamente il gran numero di ventenni o poco più che fortunatamente affollava la platea del Vascello, assisteva per la prima volta al capolavoro di Cechov, quindi adesso il grande drammaturgo vissuto fra il 1860 e il 1904 è uno dei nostri, lotta con noi e con i suoi personaggi vestiti con canotte, magliette e pantaloni di acetato. Il Cechov invece passatista, conservatore, reazionario esponente d’un teatro muffoso di retroguardia (imperiale, zarista) si permette di scrivere inopportunamente una didascalia rurale e anacronistica in testa al secondo atto (è lunga ma vale la pena leggerla tutta, ché ariconsola co’ l’aglietto): “Campagna. Una vecchia cappelletta diroccata e da tempo abbandonata; accanto ad essa un pozzo, grandi pietre che in passato erano probabilmente lapidi tombali e una vecchia panchina. Si vede la strada che porta alla proprietà di Gaev. Da un lato, svettano nereggianti i pioppi: da là comincia il giardino dei ciliegi. In lontananza una fila di pali del telegrafo; ancor più lontano all’orizzonte, si delinea confusamente, visibile solo nelle giornate limpide e belle, una grande città. Presto calerà il sole. Šarlotta, Jaša e Dunjaša siedono sulla panchina; Epichodov sta in piedi lì vicino e suona la chitarra; sono tutti pensierosi. Šarlotta porta un vecchio berretto a visiera; ha tolto il fucile dalle spalle e sta controllando la fibbia alla cintura”. Cappellette diroccate, pali del telefono, vecchie panchine, ussignùr, dida giurassica e preadamitica. Il regista invece fa calare dall’alto una tecnologica piattaforma prendisole inclinata per moderni vacanzieri in costume da bagno. D’altronde l’autore ha chiarito nell’incipit che il dramma si svolge sotto il solleone: “È già maggio”, aggiungendo purtroppo un’inopportuna nota da screanzato, “nel giardino fa ancora freddo, c’è la brina”. Ma son dettagli, questi, buoni per i registi vecchia maniera.
Inutile specificare che delle relazioni interpersonali sottili come organza di Zoagli, dei cechoviani caratteri drammatici dai contorni e dai trafori come merletti di Burano, nulla è rimasto, sostituito da personaggi squadrati meglio dei mobili Ikea. In una presentazione dello spettacolo, terzo allestimento, dopo Il gabbiano e Zio Vanja, del suo Progetto Cechov dedicato all’uomo di Taganrog (che non è la zona di ritrovamento di un esemplare di australopiteco ma la cittadina di nascita dello scrittore, in Ucraina, sulle rive del mar d’Azov), Lidi scrive: “Un luogo, un giardino/teatro, che aveva trovato la sua utilità cento anni fa e che adesso vive solo nel ricordo dei suoi interpreti. Che adesso non produce più la marmellata di cui i nostri nonni erano tanto ghiotti e che per questo si può tranquillamente buttare giù in favore di un parcheggio”. Non è ben chiaro l’argomento però è sicuro che si tratta di marmellata di ciliegie.
I registi dell’avanguardia teatrale dagli anni Settanta fino ai Novanta avevano anch’essi l’abitudine di stravolgere i testi ma agivano nel quadro di una teorica della messinscena che postulava la differenza fra scrittura drammaturgica e scrittura scenica. Giancarlo Nanni, fondatore del Vascello è stato uno dei maestri della sperimentazione. Il testo originale poco contava ed era pretesto per la ricerca, riformulazione dei canoni poetici ed estetici del teatro, non per scaricare Cechov così come Cechov l’ha scritto nel sottosuolo del robivecchiato. Chi vide Il gabbiano nella messinscena di Nanni conosce la differenza fra teatro d’innovazione e teatro solo in.
In ordine di apparizione: Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Sara Gedeone, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna. Chi recita meglio? Sono tutti molto simili, omogenei e omogeneizzati su un complessivo livello comune, forse solo Mario Pirrello nel ruolo di Lopachin trova una strada propria. Questo è l’antico teatro di regia, signore e signori del pubblico, che solitariamente detiene la cifra stilistica e poetica d’uno spettacolo e la sua certificata originalità. Il teatro del vecchio regista di avant moi le déluge.