“Femininum maskulinum”, uno spettacolo di Giancarlo Sepe. Con, fra gli altri, Pino Tufillaro. Al teatro La Comunità di Roma
Questa è Berlino che piange e ride
Bisognerebbe entrare al teatro La Comunità di Roma senza leggere le note di presentazione dello spettacolo di Giancarlo Sepe Femininum maskulinum. Si dovrebbe assistere alla rappresentazione con la mente sgombra d’ogni aspettativa e di qualsiasi idea preliminare. Persino il titolo andrebbe dimenticato perché anche quello svia. L’ideale è sedersi in poltrona, attendere il buio in sala e disporsi al sensoriale. Nessun pensiero è necessario allo spettatore, nessun ragionamento, solo la navigazione sul fiume delle immagini sceniche e delle musiche, la traversata delle proprie sensazioni dalla prima scena all’ultima. Dal momento in cui una donna e un uomo si vestono, poi si svestono e si scambiano i vestiti fino a quando il diavolo del Novecento uscirà sconfitto. Si racconta di Hitler, di Weimar, della guerra e degli americani, degli uomini e delle donne. Si narra dell’essere: essere liberi, omosessuali, eterosessuali, ebrei, artisti. Uomini e donne. Non si narra dell’essere diversi ma liberi, eterosessuali, omosessuali, ebrei, artisti. Donne e uomini.
Si potrebbe descrivere lo spettacolo come una teatralizzazione di avvenimenti storici e privati nella Germania dopo il 30 gennaio 1933, quando il caporale austriaco diventa Cancelliere. Incomincia la resistenza di attori, scrittori, drammaturghi, musicisti, ballerini, donne e uomini. Però anche questa descrizione può portare fuori strada. Femininum maskulinum è un attraversamento. La molteplicità delle immagini e la ricchezza delle musiche, quaranta pezzi, ricostruiscono un universo culturale, la grande civiltà tedesca, il mondo di ieri (per dirla con Stefan Zweig) che brucia nel fuoco del nazismo.
Il titolo scritto al contrario, Maskulinum femininum, è di una canzone di cabaret tedesco del 1924 musicata da Mischa Spoliansky su testo di Marcellus Schiffer: “E il femminile passò per maschile, / un frac e un bastone prese a portare, / e il maschile passò per femminile, / i capelli lunghi, una gonna cominciò ad indossare, / e il femminile battagliò per il maschile, / e il maschile cucinò per il femminile…”. Ci sono molte canzoni tedesche, “Das ist Berlin, wie’s weint und wie es lacht” (Questa è Berlino, sia che pianga e sia che rida), “Ja und nein, das kann dasselbe sein” (Sì e no, può essere la stessa cosa), e Debussy, Ravel, Mozart, Strauss, Britten, Mascagni – Children’s corner, Rapsodie espagnole, Das Veilchen (La violetta), Zueignung (Dedica), Mazurka elegiaca, Cavalleria rusticana (intermezzo). Un’orgia di musica, ma ordinata, logica (un certo pezzo per una certa immagine) e anche emozionale (quel suono su quel movimento dell’animo umano). Una sarabanda di attori, undici oltre a Pino Tufillaro. Ad ogni scena il suo volto, il suo corpo.
Non vi è necessità di rintracciare le varie citazioni, non particolarmente utile sapere per esempio dell’infatuazione morbosa di Hitler per la nipote Angelika Raubal, detta Geli, perché la scena di Sepe, immediatamente comunicativa, spiega tutto. Spiega, in qualche modo, attraverso le luci, l’atteggiamento degli attori, la sequenza degli avvenimenti che quella signorina finirà male (suicida con la pistola dello zio). Sepe lo lascia intuire con una distaccata osservazione, non fredda però, e nemmeno rassegnata, ma consapevole: le storie delle donne e degli uomini sono queste e non altre. Lo sguardo lucido è sempre un po’ lontano. Il giudizio non sta al di fuori dell’evento, ma nella pistola che spara, nel fuoco del forno che brucia uomini e donne. Thomas Mann nel ’29 vince il Nobel ma nel ’33, poco dopo l’ascesa di Hitler, il grande scrittore che rappresenta il deutscher Geist, lo spirito tedesco, lascia la Germania con la moglie ebrea Katia. È uno spettacolo sulle donne e gli uomini che fuggono e sugli uomini e le donne che restano. Tutti in cerca di riparo dalle efferatezze di demoni e streghe. Le storie sono come le parole, abbiamo solo quelle e non possiamo farci niente. Però dove ci sono le storie, non sempre si trovano le parole. Lo spettacolo ne contiene poche. Non è un gioco di erudizione ma una visione che mette gli spettatori nella condizione di essere donne e uomini.