“La pace” di Aristofane, adattamento e regia di Vincenzo Zingaro, con gli attori della compagnia Castalia. Al teatro Arcobaleno di Roma
Non fate la guerra, fate il teatro
È sicuramente possibile rendere più moderna, più consona al modo di sentire il teatro di noi contemporanei la commedia antica, in questo caso La pace di Aristofane. Il regista Vincenzo Zingaro ha riallestito il titolo con gli attori della compagnia Castalia al teatro Arcobaleno di Roma oltre trent’anni dopo la sua prima messa in scena. Esiste certamente il modo di evitare il teatro di istrioniche gesta e di mantenere comunque le cose (agli occhi nostri di gente lontana venticinque secoli dall’ateniese) brillanti come dopo una passata di crema Brill sulle scarpe. Il fatto è che purtroppo per chi a tutti i costi vuol fare ridere e volge con decisione verso la farsa, il comico non ha vita molto lunga, è legato al costume. Ciò che sganasciava la plebe ateniese nel 421 avanti Cristo muove il pubblico contemporaneo al sorriso condiscendente, alla risata qua e là per effetto intrinseco delle buffonerie e dell’agitazione in scena. Si ride tutt’oggi del signor Jourdain, il borghese gentiluomo di Molière, perché sentiamo gli uomini secenteschi ridicoli allo stesso modo di quelli d’oggi e per le stesse ragioni, a dimostrazione che la civiltà è rimasta sostanzialmente la stessa: per non ridere più della capra bisogna attendere l’estinzione della capra. La risata è oltretutto un fenomeno intimo legato alla familiarità, corre sulle spalle dei viventi e si scaraventa sulle facce di pubblica notorietà coeve alla platea, sicché la battuta aristofanesca su Sofocle non vale una parodia di Sgarbi. Anche perché oggi un Sofocle non si vede, mentre di Sgarbi ve ne sono greggi. L’ex sottosegretario alla cultura in un suo scritto pubblicato sul programma di sala dello spettacolo apprezza “l’ingegnoso lavoro che Zingaro conduce da anni, restituendo al teatro la sua natura più autentica, sedotta dalla sacralità delle origini, e aperta all’epopea di nuovi riti”. La natura del teatro è quindi sedotta dalla natura delle proprie origini e dice a se stessa “Oh, quanto sono sacra”; se per di più si cerca di capire cos’è a teatro l’epopea di nuovi riti, la Treccani non basta: èpos dal greco ἔπος «parola, verso esametro». Bisogna rivolgersi al maestro di filosofia del borghese gentiluomo. Il maestro di filosofia: “Sissignore: tutto ciò che non è in prosa è in versi; e tutto ciò che non è in versi è in prosa”. Il signor Jourdain: “E quando si parla, che cos’è che è?”. Il maestro di filosofia: “Prosa”. Il signor Jourdain: “Come? Quando io dico: «Nicoletta, portami le pantofole e dammi il mio berretto da notte», io faccio della prosa?”. Il maestro di filosofia: “Sì, signore”.
Vincenzo Zingaro ha meritato encomi più importanti: per la sua attività e la sua trentennale dedizione al teatro classico ha ricevuto il riconoscimento da parte della Camera dei Deputati di “eccellenza nazionale”, oltre al premio “Ombra della sera” di Volterra. Non c’è dubbio sul fatto che il regista persegue una sua linea stilistica ed estetica che può lasciare perplessi ma che ha il merito di perpetuare la memoria teatrale del repertorio classico, in ispecie la commedia, e di porlo in relazione, come in questo caso, con la contemporaneità storica se non scenica. Lode quindi alla sua intenzione di praticare un teatro come pubblico servizio culturale, come discorso alla nostra polis divenuta infernale, di allestire in questi tempi cupi e belluini un’opera contro la guerra che ha attraversato venticinque secoli per giungere a noi intatta nel suo significato perché intatta è la maledetta mania delle scimmie umane di ammazzarsi a vicenda. L’urgenza è tale da far premio sullo stile della messinscena: in platea all’Arcobaleno dovrebbero essere trascinati in catene tutti i politici rissosi e guerrafondai di Camera e Senato, delle democrazie e delle tirannie, legati alle poltrone e costretti a vedere e rivedere lo spettacolo ventiquattro ore al giorno fino allo sfinimento, fino a promettere di non sparare più né con le parole, né con le armi, neppure con la penna a biro usata come cerbottana e caricata a pallette di carta.
Guardaci Aristofane, tu che sei stato capace di scrivere una commedia sulla pace e di farci ridere durante la guerra del Peloponneso. Siamo ancora sui campi di battaglia, perdiamo sangue e corpo, molti di noi sono stesi sui letti di un ospedale da campo o giacciono a terra sotto il vento di marzo. Aggirati, osserva cosa ha fatto di noi il fuoco che ci siamo procurati. Dal tempo in cui sei stato sulla Terra siamo divenuti milioni, miliardi sdraiati con le nostre ossa spaccate sotto piccole croci allineate, volati via con i nostri scheletri polverizzati dalle esplosioni. Vai nelle città sbriciolate, dentro i palazzi eviscerati e lì ci trovi, nelle case a morire sui pavimenti. Guarda per le vie e le piazze i vivi disanimati dalla sofferenza, uomini e donne seduti per terra, esausti, gli occhi chiusi e altri uomini e donne che camminano, sfiniti, gli occhi sbarrati. Non ti fidare, qualcuno cercherà di strappare il boccone di cibo al prossimo; eppure non temere, almeno uno ci sarà a dividere con il compagno l’ultimo pezzo di pane. Si muovono fra di noi medici e infermieri ma come vedi sono anch’essi colpiti nel cuore. Aristofane, hai notato che non massacriamo più solo sui campi di battaglia e commettiamo stragi ovunque? Siamo diventati bravi, abbiamo imparato il mestiere, è ciò che sappiamo fare meglio, distruggere le vite degli altri. Ora sali alla luce del giorno su una delle nostre grandi costruzioni, la Torre Eiffel, la Statua della Libertà, il Burj Khalifa di Dubai: non vedi tu stesso che la polis non c’è più? Vai in cima al Big Ben e guarda bene l’ora, è arrivato il momento di edificare una nuova città. Buona Pasqua.