“L’origine del mondo, ritratto di un interno” scritto e diretto da Lucia Calamaro, con Concita De Gregorio, Lucia Mascino, Alice Redini. Al teatro Argentina di Roma
Il male semioscuro
L’operazione di Lucia Calamaro al teatro Argentina di Roma è molto astuta: ritira fuori un suo testo di meritato successo di quindici anni fa, L’origine del mondo, ritratto di un interno e lo rimette in scena chiamando ad interpretare uno dei tre ruoli femminili (la madre) una giornalista di fama televisiva e docg, di origine controllata e gauchista, che da ragazza sognava di fare l’attrice. L’ha messa sotto la scorta di due attrici bravissime, Lucia Mascino e Alice Redini, artiste in grado di risolvere in scena ogni imprevisto, di rimettere in qualsiasi momento lo spettacolo sui binari in caso di deragliamento. Poi l’autrice e regista ha ribattezzato la madre, che si chiamava Daria, con lo stesso nome della giornalista, Concita. Vero che quando il ruolo era interpretato da Daria Deflorian, anche in quel caso l’interprete dava il suo nome alla parte. Non si tratta quindi di un espediente atto a facilitare la prova della giornalista però è altrettanto vero che stavolta l’omonimia rende più difficile allo spettatore dimenticare la persona a profitto del personaggio. Soprattutto perché la persona in scena fa se stessa.
La scelta della giornalista De Gregorio ha generato un gran rumore sui social con abbondanza di attacchi e cattiverie nei confronti della signora ma ha altresì fatto molto parlare dello spettacolo nei giorni precedenti la “prima”. Quindi dal punto di vista del marketing, l’operazione è riuscita bene anche per l’incapacità degli odiatori d’ignorare la faccenda, atteggiamento che avrebbe ottenuto l’obbiettivo, da essi stessi voluto epperò mancato, di danneggiare lo spettacolo. Ma l’odio e l’invidia sono una coppia di ciechi. Tuttavia la reazione di molti teatranti, se non giustificabile, è spiegabile con l’’esasperazione causata dall’invasione d’una pletora di gazzettieri esibizionisti, presuntuosi e televisivari che salgono sui palcoscenici teatrali a depositare i loro prodotti. Il successo di questa gente è nella maggior parte dei casi dato da una forma di pornografia della mente, la stessa dei curiosi fermi davanti a un incidente automobilistico o affascinati dal mostruoso, l’uomo con tre gambe, la donna cannone, il gazzettista cabarettista.
La giornalista era già apparsa sulle scene un paio di anni fa con un reading di suoi scritti. E se per caso si fosse davanti a una Colette italiana, giornalista, scrittrice, attrice? Non pare il caso, però i giudizi s’hanno da dare solo dopo avere visto lo spettacolo, onde scansare il rischio di ritrovarsi poi davanti a una De Gregorio alla quale l’abilità teatrale della Calamaro ha evitato di fare brutta figura. Cosa peraltro parzialmente avvenuta perché la regista s’è ben guardata dal chiedere alla giornalista una recitazione, ossia, in poche parole, l’arte di rendere fisicamente attuale grazie alla tecnica e ai mezzi espressivi del proprio corpo – voce, gesto, movimento – l’esistenza virtuale di un personaggio. La persona in scena è uguale – voce, gesti e movimenti – a quella che si può vedere in televisione. Non c’è recitazione, nemmeno interpretazione ovviamente o costruzione del personaggio. La De Gregorio ha imparato la parte a memoria e la ripete, mettendoci un po’ di cuore. Priva di mestiere, porta in scena i suoi modi garbati, una certa grazia nel muoversi, un tono pacato, un italiano corretto e pulito tipici del suo standing di ragazza della media borghesia (quella alta è un’altra cosa), insomma una complessiva buona educazione che sempre trae d’impaccio nei casi della vita. Questo modo di nomadizzare sulla ribalta funziona – qui sta l’occhio della regista – per fare il personaggio della madre, una signora bene depressa.
Oltre al marketing, l’operazione ha anche un aspetto artistico. Calamaro ha rivisto il testo di quindici anni fa ma i tre atti, ciascuno con un suo titolo a contraddistinguerlo, e le tre generazioni di donne – nonna, madre, figlia – sono rimasti uguali. Donna melanconica al frigorifero mostra la De Gregorio che apre un frigo e si mette a mangiare con la testa dentro, assaggia, degusta, mastica, commenta quanto trova. È un monologare interrotto a un certo momento dall’arrivo della figlia che ovviamente porta lo stesso nome dell’interprete Alice Redini. Le due donne parlano di sciocchezzuole, di vestiti, e di questioni più elevate, Ludwig Wittgenstein e il pittore Giorgio Morandi. Si tratta proprio di borghesia semicolta. La figlia ha il suo daffare dialettico con una madre che si è rinchiusa in casa ed esce solo per andare dalla psicanalista, restituita dalla stessa Redini. Da anni la madre frequenta lo studio di un’analista intellettualmente mediocre e terapeuticamente truffaldina, una piccola balbuziente del pensiero. Critica forte dell’autrice alla categoria, sull’esempio delle beffe di Molière, invero più comiche, nei confronti dei medicastri secenteschi. Da parte sua, la madre va dalla psicanalista come si va a fare la ceretta: depilazione dell’anima. Allora non si può pretendere un servizio psicologico superiore a quello di un’estetista. L’estetica senza etica è cosmetica, diceva Ulay.
Il secondo atto, intitolato Certe domeniche in pigiama, vede l’apparizione della nonna (una magnifica Lucia Mascino), energica, verbosa, criticona petulante che nulla capisce della depressione e cerca di riportare la figlia a uno stato di maggior vitalità. Ma non fa altro che tormentarla, soffocarla, appartiene ad una classe d’età che non concepisce la psicanalisi come possibilità curativa. Però si rivelerà una donna della sua generazione, una femminista, una combattente della libertà, anche lei a suo modo una ribelle. Il terzo atto s’intitola Il silenzio dell’analista e racconta piuttosto il silenzio della paziente che la dottoressa non sa come affrontare.
Tutto ciò è abbastanza interessante per uno spettatore maschio, al quale la Calamaro offre un’immersione nel femminile. Si osserva come possono essere le donne, cosa si dicono, cosa fanno. Da loro, dalle donne, ogni essere umano viene, dall’Origine del mondo, quadro di Gustave Courbet appartenuto a Jacques Lacan. Tout se tient, dicono i francesi, tutto si regge.